TO DIE ON ICE, Una Specie Di Ferita
Durante gli ultimi dieci anni (con una forte spinta negli ultimi 5-6), due concetti considerati immutabili hanno trovato nuova linfa vitale quando sono stati messi in discussione: le colonne sonore non possono esistere senza i film, gli strumenti a fiato si suonano solo nel Jazz e nella musica classica. Naturalmente, il riferimento alla loro immanenza è calcolato sulla base dei grandi numeri, del pensiero comune, perché sappiamo benissimo che sono sempre esistite le dovute eccezioni, e neanche proprio così di nicchia. I numeri, però, sono i numeri e più un’idea viene diffusa, più la sua capacità di essere condivisa aumenta e maggiori sono le possibilità che da quella ne scaturisca un’altra attraverso la contaminazione del pensiero la cui evoluzione naturale va a braccetto con la sperimentazione.
Una Specie di Ferita (Grandine Records, È Un Brutto Posto Dove Vivere, Non Ti Seguo Records, Weird Side), primo disco dei To Die On Ice, formazione costituita da facce più che conosciute del panorama musicale italiano (Action Dead Mouse, Ominoacidi, Oracle), ingloba il concetto di colonna sonora prestata alla musica e l’utilizzo dello strumento a fiato, il Sax Alto in questo caso, come elemento caratterizzante di un lavoro che non è innanzitutto ma successivamente Jazz, nella misura in cui non si voglia cadere nell’errore di intendere Jazz tutto ciò che abbia a che fare con i fiati. Loro definiscono tutto questo Lynch Core, collocando in un luogo ben specifico uno stile dichiaratamente cinematografico nel suono, nelle atmosfere e anche nei titoli che richiamano quel filone filmico che legava pornografia all’horror, soprattutto tra metà anni Settanta e primi anni Ottanta, in cui le colonne sonore avevano un ruolo tutt’altro che marginale. Un album che potrebbe essere definito strumentale se non fosse per la capacità del quartetto di far lavorare spesso il Sax Alto come una voce e la voce come uno strumento, una scelta compositiva che definirei gli effetti speciali del loro personale film girato nei Vacuum Studio di Enrico Baraldi. Nell’ascoltare il disco, che si lascia ripetere tranquillamente più e più volte grazie alla sua capacità di essere ciclico, i parallelismi sono quasi necessari non tanto per un obbligo didascalico ma per gli stimoli che i To Die On Ice riescono ad alimentare attraverso riferimenti disseminati qui e lì con consapevolezza e capacità. E così, tra i Morphine più violenti, un John Zorn in vena di Blues con i Naked City e un paio di momenti quasi da crooner in “#Squirt – Una Città In Fiamme” e “#Bukkake – La Forma Esatta Delle Nuvole”, questa specie di ferita che lacera il tessuto musicale italiano sanguina tanto e non dobbiamo per nessun motivo ricucirla, perché è tutta energia che scorre.