TIM HECKER, Love Streams
I think the risk of doing digital audio in this time, is, like, when does technology become like shitty CGI? When does it become like Michael Bay Transformers of sound?
(fonte)
Ho qualcosa in comune con Tim Hecker: quando penso che qualcuno abbia troppe playstation a casa, anch’io parlo di “Transformers”, oppure di “Avengers” (Shapednoise, Jebanasam, Author & Punisher…). Tra l’altro non ho antipatia per questo tipo di cinema, però non è il solo che voglio vedere, e credo sia così pure per il canadese.
Oggi Tim Hecker è affermato, presente per la prima volta sul catalogo di un’etichetta storica come la 4AD, che ormai unisce più generazioni di ascoltatori. È quasi un classico a tutti gli effetti, ma non per questo si adagia su ciò che lo ha portato fino a questo punto. In passato era Fennesz il paragone scomodo, perché entrambi avevano messo in atto la trasfigurazione digitale dello shoegaze. Oggi sono ben distinguibili, ma per qualche strano paradosso il raffronto potrebbe proseguire, perché entrambi si mostrano spesso disarmati, nel senso che nei loro dischi compare lo strumento nudo, mai abbigliato col software, cosa che potrebbe farci credere – e in parte è così – che siano più pacificati e imborghesiti. Love Streams, però, non è un semplice ritorno dallo smaterializzato al materiale, perché è un disco che gioca moltissimo sulla confusione tra realtà e artificio, ammesso e non concesso che la prima esista davvero. Come Kara-Lis Coverdale, di nuovo presente qui come nel precedente Virgins, che è stato il primo tentativo di svolta, Hecker affronta la voce umana, una sfida interamente nuova per lui: oggi ha il budget per lavorare con un coro islandese – forse raffigurato in copertina, sfocato, virato verso colori impossibili – e ottenere da esso ciò di cui ha bisogno grazie all’aiuto di Jóhann Jóhannsson, ormai lanciato verso Hollywood, e Ben Frost, che è suo compagno di strada da anni (*). La tradizione c’è, ma se con questo termine intendiamo una discussione tra presente passato, dobbiamo tener presente che è inusuale. Love Streams potrebbe essere un disco religioso, ma non lo è nel modo che potremmo credere. Il coro canta qualcosa d’incomprensibile ed è un cortocircuito voluto. C’è una parvenza di Dio, accostata magari a un suono di synth ultraplasticoso, quasi come ad avvisare chi ascolta che qui di sacro c’è un’ipotesi, ma difettosa, irrealizzabile o irrealizzata. Anche la presenza di altri strumenti (l’organo, i flauti), il cui suono sembra giungere puro e meraviglioso, rammenta un’epoca che non c’è più, ma allo stesso tempo è “editata” e inserita in un contesto alterato, che appartiene quasi in toto al 2016. Il modo in cui conosciamo, nel Ventunesimo Secolo, è del resto stravolto dal caos delle fonti e dal meticciato continuo di culture, suoni e immagini. Qualcuno ci rimane sotto, e non capisce più nulla, qualcuno torna indietro a un passato rassicurante, qualcun altro ancora sfida il labirinto come Calvino, e infine c’è Tim Hecker, che costruisce altri labirinti, forse per tenerci allenati per quando affronteremo quelli veri. Troppo concettuale? Forse sì. Meglio le imaginary countries del passato? Difficile rispondere. A livello emotivo direi di sì.
(*) Hecker su 4AD, Frost su Mute, Lopatin su Warp. Tutti ormai su realtà consolidate e prestigiose. Segno dei tempi.
Tracklist
01. Obsidian Counterpoint
02. Music of the Air
03. Bijie Dream
04. Live Leak Instrumental
05. Violet Monumental I
06. Violet Monumental II
07. Up Red Bull Creek
08. Castrati Stack
09. Voice Crack
10. Collapse Sonata
11. Black Phase