TIM COHEN, Luck Man
Pare aver assunto un carattere più dimesso il musicista di San Francisco (oggi in versione solista), almeno rispetto a quanto sentito dai suoi gruppi più noti e dal nugolo di esperienze minori in cui ha militato dai primi anni Duemila. Seppur in maniera meno sferragliante rispetto al garage-revival delle prime uscite dei suoi The Fresh & Onlys, Tim Cohen non rinuncia a fluttuare placidamente tra maree Sixties e correnti psych, senza comunque perdersi del tutto in un revivalismo filologicamente troppo rigido. In questo Luck Man sembra affrontare il lato più morbido della faccenda, con una buona parte di questi undici brani che approdano verso un essenziale e melodico pop psichedelico in acustico, costruito con pochi elementi messi spesso e volentieri ad asciugare nel torpore del sole di qualche spiaggia della Bay Area. L’afflato cantautorale è evidente e fa da collante anche quando ci si allontana da queste lievi narcolessie lisergiche (e i Quilt sono dietro l’angolo). Le composte ballate à la Belle & Sebastian fanno da contraltare a lamenti folk minimali con un paio di pesanti riferimenti al Cohen più celebre, mentre l’incedere post-punk a base di basso pulsante con bagliori di chitarra in lontananza di “Meat Is Murder” (no, non è una cover) e l’improvvisa eruzione rumorosa degna dei Pixies che vivacizza “Irony” scuotono senza alterare troppo gli equilibri di un lavoro il cui atteggiamento generale è improntato a una certa quieta e coscienziosa rilassatezza. Ascolto magari non memorabile, ma confortevole.