TIM BERNE’S SNAKEOIL, 3/11/2017
Ferrara Jazz Club. Le foto sono di Eleonora Sole Travagli.
Questa sera ho ascoltato la voce di Dio. E posso scriverlo con la maiuscola, pur essendo ateo. Ma il Dio che ho sentito stasera è feroce, altissimo e antico, sa di mitologia, di vendetta e ha le fattezze di un suono affilato e maniacale, il suono di Snakeoil, per cui è necessario portargli il dovuto rispetto. Raramente infatti mi è capitato di vedere un concerto così potente ed elegante al tempo stesso. Nell’ambito del Bologna Jazz Festival (qui potete dare un’occhiata al programma), che ha già ospitato, tra gli altri, l’acclamato Steve Lehman, fa tappa il tour europeo dello scintillante quartetto dell’altista di Syracuse, noto ai più per Big Satan e per non aver mai smesso di cercare di spostare in avanti i confini del discorso jazz, oramai da quasi 40 anni.
Musica che ha una sua grammatica interna ferrea e articolatissima, eppure scorre con incredibile fluidità e naturalezza; che ha un elevato tasso di difficoltà tecnica ma che non si perde in labirinti intellettuali, colpendo dritto in faccia, al cuore ed allo stomaco. Visioni che vengono a patti con le orchestrazioni del Novecento (Stravinsky?), forme esplose, frastagliate, agguati, ispide poliritmie, una lingua fitta e splendente, nitida e densa, travolgente. Un clima teso e sorvegliato (ascoltiamo un discorso che non ammette repliche, dove a menare le danze è il sax alto escheriano di Berne), poi pause, con una gestione magistrale delle dinamiche, delle timbriche, e una sapienza compositiva che lascia sbalorditi (non c’è un passaggio prevedibile, mai) e finalmente l’ansia ritmica si placa. Per poi ripartire, intatta e inesorabile. Unisoni ripidi diabolici di clarinetto basso (l’ottimo Oscar Noriega) e pianoforte (Matt Mitchell, originalissimo e con grande personalità, una delle teste in fiamme dell’attualità jazz, da seguire con grande attenzione) costruiscono le consuete e solidissime fondamenta dell’edificio sopra il quale Tim Berne erige le sue torri di rabbia, spingendo sempre come un ossesso, pur restando costantemente in controllo pieno e perlustrando ogni spigolo armonico; a cucire insieme tutto questo, il batterismo meno didascalico che si possa immaginare, quello lunare e sospeso di Ches Smith (uno capace di passare dagli Xiu Xiu a Mary Halvorson senza fare una piega, swingando come un dannato senza swingare mai). La musica di Snakeoil è limpida e arcigna al tempo stesso (ed è in parte una sorpresa che sia su ECM, ma anche un’attestazione dello status di great composer per Berne), perfettamente equilibrata in ogni sua componente: il pianismo obliquo e inesorabilmente imprendibile di Mitchell svolge le funzioni del basso, sciorinando moduli e strutture a spirali che si avvitano poi in rincorse e nevrosi esatte, che quando esplodono (raramente) lasciano senza fiato. È un’epica asciutta, vibrante, quella del quartetto, che quando serra le fila non fa prigionieri. Il tono di Berne sa essere elegiaco senza essere mai retorico e in altri momenti appuntito e pugnace, con un afflato che ricorda in parte il Coltrane cosmico.
Una musica capace, nel suo farsi furente e controllatissimo, di portarti totalmente dentro di sé, di zittire qualsiasi altro pensiero, distrazione o affanno, per lasciare spazio a un silenzio della mente che sa di zen, come quando assistiamo all’indecifrabile prendere forma di una nuvola o spiamo da vicino un animale selvatico che non sa di essere visto. Super-intellettuale ma non algida, feroce ma non pesante, bianca, di un biancore abbacinante (non così lontana da certo avant-rock, laddove nel jazz i punti di riferimento potrebbero essere le poliritmie vertiginose di Steve Coleman o le orchestrazioni beffarde di Henry Threadgill) eppure strabordante groove implicito, la musica di Tim Berne con questo quartetto è una sfinge di rara bellezza. Come la Grande Piramide di Giza è l’unica delle sette meraviglie del mondo antico a essere ancora conservata.
Chiude il secondo set “More Notes”, dall’ultimo disco Incidentals. E non vediamo l’ora di sentirne di più ed ancora, di note. Nella piramide eretta da Cheope, infatti, è stata trovata una stanza segreta, e ora gli studiosi stanno cercando di decifrare meglio questo mistero: ecco, la sensazione è proprio che Snakeoil ci parli proprio da lì, da un luogo misterioso e divino, con una lingua magnetica e forse indecifrabile ( il lavoro di scrittura e di esecuzione di questi brani deve essere stato infernale o quasi , e solo il livello stellare dei musicisti sul palco fa apparire tutto così facile), ma proprio per questo così familiare e intima. Complice la splendida location del Torrione, forse il più bel jazz club dove ci sia mai capitato di entrare (potete scoprirne il programma qui) in quella stanza segreta stasera siamo entrati anche noi.