THRONEHAMMER, Incantation Rites
I Thronehammer avevano già colpito favorevolmente critica e pubblico con il precedente Usurper Of The Oaken Throne, ma è con questo nuovo Incantation Rites che riescono ad alzare davvero il livello dello scontro, grazie ad una particolare miscela di doom, sludge e pulsioni epiche in grado di dare profondità alle loro atmosfere. In particolare, la voce della cantante inglese Kat Shevil Gillham (Lucifer’s Chalice, Uncoffined, Winds Of Genocide, Morstice…) – a suo agio nel gestire con sicurezza sia le parti pulite che i momenti più aggressivi – permette alla band di costruire brani variegati e ricchi di cambi di registro (aspetto decisivo quando si trattano sonorità simili). Importante anche la scelta dei suoni, potenti ma dotati di una giusta sporcatura/calore che dona all’album un mix ben bilanciato tra oscurità e squarci di luce, a sottolineare i rallentamenti e le improvvise accelerazioni che si alternano nelle lunghe composizioni. In tutta questa varietà, la band anglo/tedesca non perde mai di vista la ricerca di un proprio timbro personale che unisca in sé la prima scena death-doom e le nuove filiazioni sludge, all’insegna di uno stile espressivo al contempo classico e attuale. Proprio per questo, nonostante l’affollamento della scena e il far riferimento ad una matrice ormai più che codificata, i Thronehammer non sembrano faticare troppo a distinguersi e a colpire il proprio pubblico d’elezione: fattore non secondario, soprattutto in un momento in cui è impossibile portare la musica dal vivo e in cui le forti restrizioni impediscono ai musicisti (ed è questo il caso) di incontrarsi durante le registrazioni e li costringono ad operare a distanza. A dirla tutta, la scomodità del dover gestire la lontananza geografica sembra un prezzo da pagare accettabile per poter contare su elementi idonei a dare efficacia a brani come “Eternal Thralldom” o la successiva “A Fading King”, autentico podio per la voce di Kat, spronata dalla complessità e dai molti cambi di scenario presenti lungo i suoi dieci minuti di durata. Merito dei suoi compagni di avventura, dunque: tutt’altro che una backing band, vista la ricchezza degli arrangiamenti e la cura nei dettagli evidentemente profusa lungo le sette tracce che compongono questo tributo al doom più sentito e ricco di pathos, distante dal manierismo di certi lavori, tanto perfetti formalmente quanto privi della giusta tensione emotiva. Vorrei trovare un vero difetto in questo album, che non sia il suo essere in modo inequivocabile innamorato e leale ad uno specifico linguaggio… ma, onestamente, non ne vedo.