Third dei Portishead ne ha fatti dieci
Il discorso sull’esplosione di ascolti e di dischi successiva alla diffusione di internet e all’ulteriore abbassamento dei costi di produzione è stato affrontato molte volte. Una delle domande che mi faccio quando penso a tutto questo è: quali dischi “alternativi” dei primi anni Duemila riusciranno a far parte – se non della memoria collettiva – dei ricordi di un numero di persone superiore a quello che va a costituire le mille micro-comunità sotterranee di oggi? La risposta per me è difficile anche perché io stesso ho la tendenza a interessarmi a suoni ai margini.
Third dei Portishead è uscito dieci anni fa, ad aprile 2008, sostanzialmente per la Universal. Secondo me ha superato la prova del tempo e potrebbe oggi mettere ancora d’accordo moltissimi ascoltatori diversi per età e gusti, anche se non è il pilastro di uno specifico genere musicale come i suoi predecessori.
Dummy
I Portishead sono uno strano trio di non-coetanei non-simili formato dal dj Geoff Barrow (1971), la cantante – introversa e fumatrice efferata – Beth Gibbons (1965), il chitarrista jazz Adrian Utley (1957), più inizialmente Dave McDonald, il produttore che agisce all’incirca dietro le quinte. Hanno base a Bristol, città sempre protagonista della musica inglese che – tra le altre cose – nei Novanta dà il nome a un sound che altri chiamano trip hop con un chiaro gioco di parole: a fare il botto sono i nostri affezionatissimi, i Massive Attack, Tricky e i loro incontri/scontri, tra collaborazioni, somiglianze, cannibalismi, osmosi e remix. A qualcuno piace ricordare anche Smith & Mighty.
Dummy, il loro primo album (1994), è già perfetto. I campionamenti, insieme alle melodie dei vinili scratchati da Barrow, formano un’atmosfera in parte romantica, in parte noir, in parte da jazz club: frammenti di Isaac Hayes, Weather Report e Lalo Schifrin si intrecciano con la chitarra, ma anche con l’organo Hammond o il piano Rhodes, che passano da “desueti” a “vintage”, perché del resto il pop e l’hip hop sono un lavoro postmoderno di reinvenzione, di riciclo con un tocco di novità. Quest’ultima risiede nel ritmo: il movimento al rallentatore e narcotico dei pezzi è forse la prima cosa che viene in mente pensando al suono di Bristol. All’epoca MTV, non so se al massimo della sua forza, ma di sicuro ancora senza la concorrenza (leale e sleale) del web, spinge il progetto trasmettendo i video dei singoli killer di Dummy, cioè “Numb”, “Glory Box”, “Sour Times”. Per la maggior parte del tempo sembra di stare in un film in bianco e nero, di spionaggio o poco via, visto che Barrow campiona pur sempre l’inventore del tema di “Mission Impossible” (il già menzionato Schifrin). Utley, per inciso, è bravissimo a infilarsi in questo tipo di trame. In altri momenti, invece, i brani trasmettono le stesse sensazioni che si provano sottacqua, a grandi profondità (“amniotico” è un aggettivo stra-usato a partire da quell’epoca, complice il video di “Teardrop” dei Massive Attack). Sopra a tutto questo sta Beth Gibbons con la sua voce, paragonata senza troppe remore a quelle di Billie Holiday e Nina Simone, e coi suoi testi che ritraggono una solitudine irrimediabile.
Insomma, una partenza magnifica, capace di ispirare chiunque, anche chi non c’entra nulla: esempi non ovvi come le miriade di sciocchezze downtempo à la Kruder & Dorfmeister sono quelli dei vari metallari “pentiti” Ulver, Third And The Mortal e Gathering oppure il “darkjazz” di certi gruppi su Denovali…
Portishead (l’album)
Nel 1997 mettiamo MTV e c’è il video – in bianco e nero, ça va sans dire – di una bambina un po’ disturbante che canta in uno studio televisivo in cui mancano solo Corrado o Mike, anche perché a un dato momento compare in sovraimpressione una scritta in italiano, una brutta traduzione dall’inglese che ci permette di sgamare il regista: stiamo ascoltando “All Mine” (con archi e fiati autentici), estratta dalla soundtrack mai uscita di un James Bond mai esistito. Tre anni dopo Dummy, i Portishead, che avevano letto “Retromania” una quindicina d’anni prima che uscisse, citano sempre colonne sonore del passato e l’immaginario a esse connesso, e Gibbons non fa che accendersi sigarette. In realtà, qualcosa è diverso: Barrow, che resta il deus ex machina, adesso non utilizza ritagli di brani altrui, bensì di roba sua in linea con il sound del gruppo, poi li mette come sempre su vinile per poter scratchare; gioca dunque coi rimandi e allo stesso tempo cerca una specie di autonomia (cos’è originale? Cosa non lo è? Cosa significa originale? Sono domande che mi rifarò nel 2008). Utley comincia a farsi sentire di più, mentre la voce è ancora struggente, spesso mutata, basta ascoltare l’incredibile “Half Day Closing”. I singoli sono tre anche questa volta: “All Mine”, appunto, poi “Over” con Utley oltretombale, circondato da effetti irreali e sostenuto dalla consueta ritmica morbida (tutto da gustare l’assolo finale), infine “Only You”, col sample della musica di un film su Clouseau senza Peter Sellers (che bello essere nerd!), accompagnata da un video di Chris Cunningham, all’epoca considerato Dio, vedi le collaborazioni con Aphex Twin, che non a caso nelle immagini fa riferimento all’apnea e al sogno (the people were shot in a tank of water and then digitally inserted into an alleyway of a street scene).
Entr’acte (?)
Dopo il 1997 la band pubblica un album live, poi in pratica si ferma.
Il trip hop muore, ucciso dall’attacco dei cloni (dopo i titoli di coda compare Burial): nella mia percezione molto personale, ma non dev’essere andata sul serio così, Dido è l’ultima sfruttatrice di un vecchio malato e incapace di difendersi.
Beth Gibbons realizza un disco che a tratti la colloca in un contesto folk e la collega alla storia dei Talk Talk (è una collaborazione con Paul Webb), coi quali condivide il fastidio per la luce dei riflettori, una caratteristica che ritengo si riverberi nelle musiche di tutti questi artisti. Primo salto in avanti nel tempo, utile per capire il 2008: nel 2014 suonerà con Krzysztof Penderecki (uno che il cinema ha saccheggiato spesso, vedere e sentire “L’Esorcista”, “Shining”, “Inland Empire”…).
Utley, turnista di lusso, è ovunque, anche nel disco di Beth e Webb. Secondo viaggio nel tempo: nel 2013 formerà un’orchestra di chitarre e rifarà “In C” di Terry Riley.
Barrow fonda la Invada Records nel 2002 (altro varco dimensionale: il motorik dei Beak si avvierà nel 2009).
In molti dicono che sia la cantante l’unico trait d’union tra i Portishead dei Novanta e quelli degli Zero, ma nessuno pensa alla dipendenza da soundtrack di Barrow: Invada ne pubblica di meravigliose (quarto flashforward: lui stesso ne comporrà di pazzesche, come quelle di “Ex Machina” e “Annihilation”), solo che c’è uno slittamento, perché si passa alla fantascienza, alla kosmische musik e a Carpenter. Geoff, dunque, intercetta o è partecipe di una serie di tendenze dei primi anni del nuovo millennio: la riscoperta interminabile del kraut, le ristampe continue di score di culto, la definitiva – e in quel momento ancora non conclusa – sacralizzazione musicale del regista di “Fuga da New York” e il ritorno dei synth analogici, che non se n’erano mai andati davvero (pare che anche Utley stia in fissa).
I Portishead del Duemila sono ancora postmoderni, rileggono una serie di “testi” di cui anche una regione dell’universo underground si sta riappropriando, avanguardie comprese. Diventano “curatori”, plasmano e sono plasmati dalla contemporaneità. Nel 2007 l’ATP Festival, molto à la page al tempo, lascia decidere a loro il cartellone: compaiono Aphex Twin, Thurston Moore, Glenn Branca, Damo Suzuki, Oneida, Madlib, Fuck Buttons, Silver Apples, ai quali è affiancato il mondo drone doom, in quel momento al centro dell’attenzione di molta critica snob, e dunque ecco Earth, Sunn O))), Boris, Atavist, e anche Om e Oren Ambarchi, volendo forzare… Sono nomi che valgono più di mille spiegazioni. Nel 2008 Barrow racconta a Pitchfork che Coxe (Silver Apples), sente “We Carry On” (estratta da Third) e va a dir loro “that’s my song!”, non so se incazzato o meno. A Blow Up (numero 199), inoltre, confessa di aver pensato di campionare i Can per il nuovo disco. Invece meno sample e niente più scratching.
Ogni cosa che si fa torna indietro tre volte nel bene e tre volte nel male. Se si fa del bene si riceverà tre volte il bene, se si fa del male si riceverà tre volte il male. Non bisogna però fare del bene nell’attesa della ricompensa.
Nel momento in cui esce, Third stupisce tutti per le differenze con First & Second. Il gruppo stesso – insieme ai giornalisti e al pubblico – sottolinea di più le novità e dichiara che non intendeva ripetersi e vivere di rendita, ma ciò che ascoltiamo pare aver affrontato davvero una gestazione di anni e porta in qualche modo avanti una sola storia complessa: i brani sembrano aver subito scritture, riscritture e sovrascritture, la roccia è una sola, ma è sedimentaria e ogni strato ci permette di desumere qualcosa sulle epoche attraversate dai tre e dai loro collaboratori. A distanza di tempo, insomma, la personalità di quest’album sorprende perché tiene insieme come se fosse normale elementi che nessuno si aspettava potessero anche solo frequentarsi, tanto che alla fin fine nessuno ha provato a imitare questi Portishead, e forse è stata una fregatura, perché certi dischi che oggi adoriamo ci sono stati più o meno involontariamente tramandati dalle band che hanno influenzato/ispirato.
Qui parti folk preludono ad accelerazioni nello stile Neu!/Silver Apples (“The Rip”, “We Carry On”), poliritmi (l’iniziale “Silence”) non stridono accanto ai movimenti più languidi dei Novanta, anche se della matrice hip hop non è rimasto niente: sentire “Nylon Smile” o anche “Magic Doors”. Il sound disumano a metà tra Carpenter e industrial regge bene la voce umana dolente in “Machine Gun”, pezzo indimenticabile: riprendendosi da un primo mancamento, come già ho scritto, si realizza che queste persone sono sin dal giorno uno infognate nel cinema e nei dischi di genere, e dal giorno due recuperano strumenti dimenticati per ricontestualizzarli, dunque è normale che piazzino con mano sicura synth analogici un po’ in tutto Third, perché è il loro modo di non annoiare il pubblico pur offrendogli la stessa operazione culturale. In questo schema rientra anche il lavoro che Utley ha fatto su sé stesso: ha accantonato la tecnica e puntato sul suono puro, diventando più pesante e rumoroso oppure utilizzando ripetizioni minimaliste quasi no wave per accentuare i tratti kraut assunti dalla sua band, una trasformazione in linea con quanto sta accadendo in quegli anni.
In sintesi, un classico degli anni Zero, realizzato dagli autori di due classici degli anni Novanta, un bignami per capire il suo tempo.
Se nel 2028 qualche rivista – come succede oggi – andrà a caccia di ventennali per scrivere qualche long form che funzioni, spero proprio festeggi quello di Third. E chissà come lo racconterà…
Mi ha aiutato a capire i Portishead e Dummy il libro di Piergiorgio Pardo “Le video generation. I ragazzi degli anni ’80 e i loro miti”, uscito nel 2001 per Xenia.
Il poster e l’artwork di Third sono stati presi dal sito di chi li ha fatti.