THE TELESCOPES

Stephen Lawrie, foto di Brittany Solberg

Alla mia domanda sulle band che possono aver influenzato con il loro lavoro (butto lì un paio di nomi come White Hills, Warlocks, Black Rebel Motorcycle Club) Stephen Lawrie risponde con la tipica laconicità di chi si è sentito rivolgere questo interrogativo un bel po’ di volte nel corso degli anni: Non ne ho idea, alcune persone mi dicono di essere state influenzate da noi, poi vado a sentire la loro musica e non riesco ad ascoltarla. L’ispirazione è una strana cosa, si può manifestare in molti modi e portarti a fare qualcosa di completamente diverso. Partiti dal nord dell’Inghilterra nel 1987, i Telescopes incrociano il proprio cammino con un’altra band destinata a lasciare un segno indelebile nella storia della musica: i Loop di Robert Hampson. La prima prova su disco è infatti un flexidisc condiviso con loro, un lato ciascuno, che esce allegato a un numero della fanzine Sowing Seeds: Ho incontrato i Loop soltanto un po’ dopo l’uscita del flexi. Robert ed io chiacchieravamo al telefono ma l’ho visto per la prima volta soltanto quando abbiamo suonato al festival di Reading nel 1990: si è presentato e gli ho detto “era ora che ci incontrassimo!”. Ovviamente sapevo già chi fosse. Conoscevamo già uno dei loro chitarristi, James (aveva suonato in Heavens End), lo avevamo visto a Londra durante alcuni live. È bello vederli attivi ancora adesso, con sempre nuovo materiale, mi piacciono le loro ultime cose. Con una formazione composta da Joanna Duran alla voce e chitarra, Robert Brookes al basso, David Fitzgerald alla chitarra, Dominic Dillon alla batteria e Stephen alla voce, la band registra nel 1989 un 7” per l’etichetta Cheere, contenente due brani che rievocano una certa attitudine garage scassona. Ma a differenza dell’approccio filologicamente corretto dei gruppi di quell’area, che proprio in quegli anni stanno vivendo attimi di fulgore, i Telescopes dichiarano tra i solchi di questo dischetto di volerti trascinare a forza nella loro pazzia e rendere l’aria pesante, torbida, per quanto cinta di perle di rugiada che scintillano. La loro visione della musica è in pratica uno sguardo che penetra nell’intimo con la violenza di un proiettile e che dimostra di avere molte cose in comune con quanto stanno facendo oltreoceano band come Sonic Youth e Dinosaur Jr; ovverosia abbinare al potenziale di follia del rock quell’indefinibile sensazione di essere sempre e ovunque uno straniero alla ricerca di un regno perduto. Quindi non è un caso che il primo album su lunga distanza veda la luce, proprio lo stesso anno di uscita del singolo, per l’americana What Goes On. Taste conquista critica e pubblico e scolpisce il nome della band nel pantheon degli indimenticabili grazie a pezzi come “The Perfect Needle” e “Violence”, che rimarranno, a parere di chi scrive, tra le loro cose migliori. Il significato che quelle due canzoni hanno per me cambia ogni volta: le ho scritte proprio perché fossero ambigue. Devo suonarle decine di volte in tour, sarebbe impossibile ricreare le stesse emozioni a ogni concerto, io stesso non mi sento uguale tutti i giorni e non riesco a fingere davanti al pubblico: per questo preferisco lasciare spazio a varie interpretazioni. A volte parlano di droghe e violenza, a volte no. “The Perfect Needle” è stata scritta in reazione a una voce che girava nella scena locale dell’epoca, secondo cui i Telescopes erano un gruppo di cazzoni che non sapeva suonare. Ed in parte era vero: non sapevamo suonare ma non eravamo assolutamente dei cazzoni, anzi! Le nostre idee erano di gran lunga migliori di quelle degli altri, che rosicavano di conseguenza. Nel periodo in cui abbiamo registrato Taste qualcuno di loro ha iniziato a farsi di eroina: io ero felice, stavamo per far uscire il nostro primo lp e avevo tutto l’interesse per tenermi lontano da questa droga che stava iniziando a spopolare in città. Volevo anche che odiassero il mio gruppo, era giusto che lo odiassero. Quindi l’ago è inteso come stiletto, come siringa e come provocazione.

Taste

La What Goes On chiude baracca e la Creation prontamente fa sapere alla band di esser disposta a prenderla con sé, nel proprio catalogo. Untitled Second del 1992 cancella con un colpo di spugna il credo “pervertiti dal rumore, sedotti dalla melodia”, sostituendo la melma purgatoriale delle distorsioni a suoni acustici condensati in una nuvola dorata. Ora i referenti più vicini sembrano essere il sunshine pop dei ’60 e i tremolanti assestamenti folk di alcuni brani di Forever Changes dei Love. Il cambiamento è troppo drastico e i fan della prima ora, convinti che la band abbia ripulito il proprio sound con il solo scopo di aprirsi al mainstream e batter cassa, volta loro le spalle. Ciò contribuirà all’affievolirsi progressivo della fiamma, fino al suo spegnimento dopo un ultimo tour nel 1994. Così Stephen ricorda quei giorni amari: Mi ero completamente bruciato, per molte ragioni. Non riuscivo a vedere un futuro per il gruppo, non ero mentalmente stabile. Il nostro secondo disco ora è considerato come una specie di “classico perduto”, ma al tempo della sua uscita il pubblico era deluso dal fatto che non fosse Taste number 2. Tutti ci hanno voltato le spalle… Tutti tranne Jo. È stato un ammutinamento totale, da tutte le parti. Io volevo soltanto continuare a fare musica che espandesse la mente, ma in quel momento avevo perso tutto, mi avevano abbandonato in compagnia di una chitarra acustica e una montagna di bollette da pagare. Con l’ultima line-up, che vede i membri storici Stephen e Joanna affiancati da Nick Hemming (chitarra, tastiera), Dan (batteria) e Foz (basso), la band cambia ragione sociale in Unisex, ma non pelle. O meglio: la pelle rimane sempre la stessa, ma cambia l’abbronzante e la quantità di epidermide esposta. Dopo un buon numero di singoli e un mini danno alla luce un album, Stratosfear (Double Agent, 2001), che sposa il sommesso spleen del dreampop agli spasmi incontrollati della kosmische music fin quasi a cadere in un deliquio romantico-spaziale senza ritorno. Non sarà un capolavoro, però indica i futuri scenari di investigazione dei ritrovati/rinsaviti Telescopes nell’anno 2002, sempre meno legati al format rock e sempre più attratti da pratiche solipsiste palpitanti di mille rumori mescolati in un unico respiro. Tracciare dal rientro in pista un percorso agevole ma soprattutto indicativo delle varie uscite che si sono susseguite è impresa ardua, anche perché molti di questi materiali sono poco più che appunti scarabocchiati a bordo pagina, istantanee che nulla aggiungono all’evoluzione della band e un lavoro che propriamente funzioni dall’inizio alla fine non c’è.

THE TELESCOPES

Se del tripperama di un Sonic Boom in queste musiche rinveniamo il tipico sesto senso per la catatonia incrostata di suppurazioni resinose, dall’altro lato la calligrafia scossa, sovraeccitata e volutamente fuori formato che sottende il mood generale non può che far pensare ai grandi irregolari del post-rock (mi viene in mente l’unico album realizzato dai Rome, ma ci potrebbero stare molti altri esempi). Insomma, è una carriera che sembra destinata, ne più ne meno di molte altre, a correre sui binari della consuetudine e per un mercato underground, se non che arriva il grande colpo di coda. Uscito nell’agosto di quest’anno per Tapete Records, Hidden Fields brilla come il granito di una scultura megalitica fin dal primo ascolto. Ed è tutto merito dell’equilibrio di suono che regna tra la componente dreamy e quella primitiva, dai bordi taglienti. Un equilibrio che non è mai stato così baciato dal senso della misura come adesso. Niente più sagome dal profilo ectoplasmatico e navigazioni a vista su fondali verdolini, ma un unico desolato paesaggio di rocce e un sole invertito che invece che irradiare energia la assorbe. Comunico il mio entusiasmo all’intervistato nel vano tentativo di scucirgli qualcosa (anche perché sta girando in tour in questo momento, con date che toccheranno la nostra penisola, e vorrei avere qualche chicca per promozionare l’album e sollecitare la gente a testarli live), ma lui avaro di parole com’è non va più in là di un semplice “grazie del complimento”. Sulle prime ci rimango male, però poi mi convinco della necessità di tener separate le due cose (la pochezza di alcune risposte e la bontà del disco) e di scendere a prender due cose in supermercato prima che chiudano. P.S.: grazie a Vittoria Rusalen per essersi occupata della traduzione dell’intervista.

Telescopes in Italia

23/10/2015 Torino. Magazzino Sul Po
24/10/2015 Bologna. Covo Club
25/10/2015 Roma. Fanfulla
26/10/2015 Napoli. Sound Music Club
27/10/2015 Lecce. Officine Cantelmo
29/10/2015 Trani. Korova Lounge Bar
30/10/2015 Firenze. Tender
31/10/2015 Treviso. Benicio Live Gigs
01/11/2015 Ancona. Reasonanz
02/11/2015 Trieste. Tetris
03/11/2015 Milano. Sagrestia