THE SHEAVES, Excess Death Cult Time
“Musica per ridere, vivere e amare nei nuovi, ruggenti anni ’20”: questa l’indicazione lasciata dai The Sheaves per l’ascolto dell’esordio Excess Death Cult Time. A dirlo è una band che si definisce “minimal-art-punk”, il che ci dà l’idea dell’ironia dei tempi che viviamo. Poco si sa su questi cinque proletari di Phoenix, se non che vengono lanciati dalla concittadina Moone Records, e che prima si chiamavano Solid Brown. Per quanto riguarda la provenienza, Phoenix è l’ultimo posto che potrebbe venire in mente, perché i The Sheaves sembrano appena usciti da un qualche sudicio locale dell’Inghilterra di metà anni Settanta: Excess Death Cult Time può ricordare una out-take dei Fall, oppure una collaborazione tra Mark Smith e gli Swell Maps. Le coordinate musicali non sono difficili da indovinare: post-punk ridotto all’osso a girare su motorik scarnificati, melodie dissonanti, qua e là inserti di folk lo-fi, una voce nasale che declama testi surreali. Eppure, se ci si ferma ad ascoltare, qualcosa di Phoenix c’è: i The Sheaves pagano pegno ai Meat Puppets di II, da cui riprendono lo stile fricchettone e sbandato, e omaggiano anche il Dunedin Sound nei momenti più limacciosi, facendo il verso ai Tall Dwarves di Hello Cruel World (“Mid English Perversion”, “Puritans Ignore Them”), e cedono alla tentazione di uno psych-pop lo-fi nella finale “Hit Silly”.
Anche questo piccolo album pare essere nato dall’urgenza creativa scatenata dal lockdown, cadendo non lontano dal filone del nuovo punk americano di Erik Nervous e Cherry Cheeks, che hanno fatto del “bedroom-punk” degli ultimi anni una legge di vita, vicino all’egg-punk australiano dei Gee Tee, anche se rispetto ai colleghi i The Sheaves propongono un punk più imbastardito con pulsioni avant. Diciannove minuti sono pochi, è vero, ma non perdiamoli di vista.