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THE OTOLITH, Folium Limina

Al tempo, i Subrosa (Salt Lake City) sono stati una delle nuove band alle quali ci siamo immediatamente affezionati, seguendone con interesse l’intero percorso, anche per la perizia dimostrata nell’individuare e via via consolidare una propria cifra stilistica. Purtroppo nel 2019 hanno preso tutti di sorpresa annunciando lo scioglimento, una decisione maturata a due anni dal live al Roadburn e a tre dall’ultimo disco in studio, For This We Fought The Battle Of Ages.

Fast forward e arriviamo ad oggi e al debutto di un nuovo nome che con i Subrosa ha parecchio in comune, cioè ben quattro musicisti: dei cinque The Otolith, infatti, fanno parte Kim Cordray, Sarah Pendleton, Levi Hanna e Andy Patterson, ai quali s’è unito il bassista Matt Brotherton. Anche dal punto di vista musicale non mancano i richiami alle atmosfere della formazione madre, con il suono dei violini immediatamente riconoscibile e in grado di offrire un ponte con quegli album che tanto ci avevano colpito. Sarebbe ingiusto, però, considerare la nuova creatura come un semplice prolungamento del discorso bruscamente interrotto tre anni fa, questo perché i The Otolith hanno avuto il coraggio di caratterizzare l’attuale proposta con una palette ancora più ricca, seppur tutta giocata su toni cupi: a cominciare da un mood dolente vicino alle derive più oscure di certo post-metal da un lato e al filone apo-folk dall’altro, il che non può non richiamare i Neurosis e i progetti solisti a loro collegati, solo per fare il nome più ingombrante del lotto. Dall’unione del mondo di partenza, di chiara estrazione doom, con questi nuovi ingredienti comincia a svilupparsi un nuovo cammino che si preannuncia al contempo di continuazione e di rottura con il passato ma che di sicuro non lascia indifferenti. Fattore degno di nota è che, al di là dei legami coi Subrosa, Folium Limina si presenta come un album capace di stare in piedi da solo e di poter ambire a colpire anche una platea di nuovi ascoltatori con un linguaggio altrettanto personale ma ancora più spinto sul versante del pathos e della condivisione di emozioni. Non è, difatti, semplice restare indifferenti alle linee orientaleggianti di un brano come “Ekpyrotic” o alle melodie dense di malinconia e sofferenza che contrappuntano “Bone Dust”, con il suo tratto onirico che nel finale va ad accompagnare il celebre monologo di Charlie Chaplin ne “Il Grande Dittatore”. Non è, però, un mero crogiolarsi nel dolore quanto un cercare una luce in fondo al tunnel, il trovare conforto nel condividere la sofferenza con qualcuno che la comprenda. Nelle parole della band: una catarsi ottenuta attraverso un “rito di purificazione a base di lugubre metal atmosferico”.

Con un debutto che tradisce la coesione ottenuta nella precedente incarnazione e che proprio per questo appare più maturo di quanto ci si aspetterebbe da un’opera prima, i The Otolith si riescono ad imporre come una delle novità più interessanti e degne di nota di quest’ultimo periodo. Da appuntarsi come una di quelle scommesse che ogni tanto ci piace fare, vedremo in futuro se a ragione o torto.