THE NECKS, Travel
Semmai parlare di generi e stili musicali avesse un senso, questo verrebbe completamente meno al cospetto della musica dei tre australiani, tanto più in questa loro ultima prova: jazz, rock, minimalismo, sperimentazione, tutto e niente.
Smarrimento, questa è la sensazione che sembra generare la musica dei Necks, quello smarrimento così vicino all’esperienza del sublime, una cosa che arrivi ad assaporare appieno con il tempo, con l’accatastarsi degli ascolti. Un tempo detestavo perdermi, sbagliare strada: mi incazzavo come una bestia. Poi sono arrivati i navigatori satellitari e poi ancora Google Maps, e adesso ho quasi nostalgia di quei giri a vuoto, brancolare attorno a tangenziali, del viaggio come ricerca forsennata di una direzione. I quattro brani di Travel viaggiano tutti attorno ai venti minuti: qualche sovraincisione, per il resto sembra di ascoltare quattro sessioni di improvvisazione sempre molto controllata eppure non priva di trasporto. Il pezzo d’apertura -un grimaldello nella sua semplicità solo apparente – è caratterizzato da un ostinato di contrabbasso attorno a cui si incardina il pianoforte maliardo di Chris Abrahams, con la batteria che si carica di groove strada facendo. I pezzi centrali (continuo a sostenere che The Necks vadano ascoltati su cd, non per vezzi audiofili ma perché anche il solo alzarsi dal divano a girare il disco mi sembra l’imperdonabile interruzione di un flusso) sono quelli più coinvolgenti: come sempre accade con la musica del trio australiano, la tendenza è quella di dirigere vicendevolmente l’ascolto dietro ai rispettivi strumenti, stentando a cogliere una visione d’insieme. Quello dei Necks è un panorama sonoro fin troppo vasto da abbracciare in un colpo solo e allora gioveranno sessioni ripetute in cui ogni volta si coglieranno scorci diversi. I tre sfoderano una notevole varietà di registri sonori, con Abrahams diviso fra pianoforte e organo, Swanton fra pizzicato, archetto, note scurissime o cristalline, slide e armonici e Buck che dà vita ad un set di percussioni quasi liquido nella sua informità. Il brano finale è una prova di magniloquenza per organo e contrappunti di batteria. Ci troviamo decisamente di fronte a una fra le cose migliori fatte dai Necks nell’ultimo decennio.