THE NECKS, Body
Un precipizio, una stasi, una resa, vortici lentissimi, come fluttuare nello spazio, imitare le forme invisibili del cielo: oppure, pluf, affogare nella città nuda, e allora zoom, premere forte le mani contro una vetrata a Tokyo, a Milano, a Kuala Lumpur, a Sidney, per ricordarsi di essere vivi, per sentire la faccia schiacciata contro il freddo trasparente, perdersi nel flusso anonimo come una moneta in un distributore, infilarsi nel traffico, ripetere ogni volta gli stessi gesti, alla stessa ora, prestare la propria vita in cambio di un salario che permetta di viverla: sempre uguale, eppure sempre diversa; esistere spesso è paradossale e anche la musica dei Necks lo è. Sempre uguale, eppure sempre diversa. Questo ventesimo disco, Body, uscito a metà agosto, ci propone un’unica traccia di 57 minuti, con luci e ombre, a volte bellissime, a volte superflue. Avvolgente come di consueto l’ingresso nel loro dilatato mondo, dove la lentezza e le impercettibili evoluzioni comandano (“Cosa significa davvero essere lento?” È una domanda interessante che Tony Buck si e ci pone nell’intervista che gli abbiamo fatto): un pugno di elementi (il basso resta immobile su una nota e su una cadenza, il piano sale e scende le stesse scale, pochi passi, come fosse una danza in equilibrio su una corda tesa tra due grattacieli altissimi, la batteria batte un quattro quarti aereo, scintillante), la solita magistrale sensibilità e capacità di combinare con grande dinamica e senso dello spazio quanto si ha a disposizione, centellinando ogni aggiunta senza la minima fretta di dire, lasciandosi letteralmente portare dal flusso, creando panorami vastissimi, in cui è facile perdersi. Vengono in mente gli ultimi Talk Talk per lo stesso tipo di groove inesorabilmente fragile, una sorta di motorik tutto interiore dove i minuti perdono di verità, resta solo un fiume di suono che scorre e non ci sono cadaveri da attendere ma solo uno sviluppo organico, geologico, come fosse ambient suonata però con strumenti acustici, e questa resta forse una delle migliori intuizioni in assoluto del trio, un senso di veglia e di attesa nel deserto dei Tartari, poi un organo liquido si fa strada mentre la pulsazione pare perdere consistenza, e poi, e poi e poi. Credo che molte recensioni dei Necks corrano il rischio di somigliarsi perché i dischi dei Necks si somigliano tra di loro, perché trovato un suono profondo e potente come questo non ci sono motivi per abbandonarlo, perché parlare di musica è come ballare di architettura, come diceva Zappa, e perché di fronte a musiche come queste il nostro tentativo di classificare, di descrivere, di dire, si dimostra finalmente per quello che è: completamente vano. La prima parte di Body lascia per l’ennesima volta ammutoliti, se la si ascolta come si ascolta piovere, come diceva il poeta messicano Octavio Paz: sarà per ottobre che affila le sue armi o per questo cielo di coltelli spenti che manterrà la pioggia che promette, ma ancora una volta questa mi sembra musica necessaria, una sorta di perfetta preghiera per questi tempi disastrati e insensati; alle mie orecchie poi le cose funzionano molto meno quando Tony Buck imbraccia la chitarra (come gli ho visto fare anche al Météo Festival a fine agosto in duo con Charles Hayward, con risultati francamente dimenticabili) e il pezzo prende una piega rock un po’ enfatica che lascia davvero il tempo che trova: una soluzione spiazzante perché banale, immediatamente perdiamo quota, ci ritroviamo di nuovo invischiati nei nostri affanni di animali urbani, di esseri dotati di un corpo che reclama e che scricchiola, l’altrove così familiare e remoto in cui ci trovavamo perfettamente a nostro agio fino a qualche minuto prima sembra lontano e dimenticato, peccato. Si chiude tornando nei dintorni del silenzio con tintinnii e campanelli, è la fine che delicatamente bussa, di nuovo musica per organi caldi ed obliqui, presto arriverà nuovamente il vuoto, presto finalmente tutto tacerà, ecco, ci siamo, finalmente tutto tornerà alla quiete immota di prima, dopo questo punto.