THE NECKS, 28/11/2017
Padova, Sala dei Giganti, Palazzo Liviano. Grazie a Centro d’Arte Padova per averci concesso l’uso delle due foto scattate da Tommaso Rosa.
Comincia a cadere una pioggia incessante.
Nell’arca, e dove mai potreste andare:
voi, poesie per una sola voce,
slanci privati,
talenti non indispensabili,
curiosità superflua,
afflizioni e paure di modesta portata,
e tu, voglia di guardare le cose da sei lati[…] (Nell’Arca, Wisława Szymborska)
Quasi un’impresa raccontare il concerto dei Necks nella stupenda Sala dei Giganti al Liviano a Padova, unica data italiana ed evento finale della rassegna Centrodarte 17, curata dal Centro d’Arte degli studenti dell’università di Padova. C’era molta attesa per il trio australiano e nel folto pubblico accorso moltissimi erano i musicisti e le facce note dell’ambiente: giunto al trentesimo anno di attività, quello che in un bell’articolo sul New York Times Geoff Dyer ha definito “il più grande trio della terra”, ha saputo creare un suono caratteristico, che somiglia proprio a una pioggia: inizia in modo imprevedibile, delicato, per poi crescere, crescere e infine smettere. Il set di stasera è diviso in due parti da 45 minuti circa l’una: Chris Abrahams, assorto nel suo fragile ma inesorabile mantra per tasti neri e note bianche, di un lucore abbacinante, dà le spalle a Lloyd Swanton (contrabbasso) e Tony Buck, batteria. In nome del deep listening non serve guardarsi, le connessioni che si attivano sono di altro tipo, sul palco e in platea. Ognuno dei tre strumentisti probabilmente è un talento non indispensabile (quando si parla di post-jazz a proposito dei Necks a mio avviso si prende una cantonata, a essere sinceri), e ad esempio il recente disco solista di Buck non m’è piaciuto, ma stasera abbiamo di fronte musicisti dotati di grandissima sensibilità e capaci di creare insieme qualcosa di mesmerico e lirico. Un inizio raccolto: poche note suonate con estrema cura e dinamiche incredibilmente espressive, come se i tasti potessero cadere al suolo e rompersi in mille pezzi da un momento all’altro, poi (un poi indefinito, non ho la minima idea di quanti minuti possano essere trascorsi) entra Swanton con l’archetto a sottolineare ciò che sta in basso, e sono epifanie minime e miracolose che allargano il respiro, come l’apparizione di forme inaspettate eppure familiari in una nuvola; i piatti della batteria, dalla quale a un certo punto usciranno suoni solo in apparenza elettronici (notevole l’impasto timbrico che i tre creano senza ricorrere ad alcun effetto, sono solo mani, dinamiche, cuore, testa, corde, bacchette, piccole percussioni), arrivano dopo un tempo non più quantificabile, perché intanto la pioggia è già accaduta – la pioggia è qualcosa che accade nel passato diceva Borges – e ora ci siamo dentro in pieno, siamo dentro in pieno in questo magnifico labirinto di specchi, in un infinito inizio, o in un’attesa celeste, in un gioco di spaesamenti e ripetizioni, di virgole e rincorse, oppure siamo sull’arca e questa musica ci salva dalle miserie del quotidiano, dai suoi affanni. Bisognerebbe far sentire tutto questo negli ospedali o nei manicomi, lunghissimi campi sequenza che hanno la stessa profondità psichica delle distese di colore di Mark Rothko, ripetizioni sempre diverse che ti portano in un altro posto senza che tu capisca come ci sei arrivato. La percezione dello spazio tempo cambia con questo flusso minimale eppure ricchissimo, con il gioco degli armonici mi pare addirittura di sentire un sassofono, ma sarà solo la suggestione (del resto non viviamo di suggestioni?), di sentire questo pianoforte languidamente inesorabile in una sala che lascia ogni volta a bocca aperta, e allora tornano in mente “Il ventre dell’architetto” di Peter Greenaway e il suo tema portante, “Struggle For Pleasure” di Wim Mertens, forse per l’uso del pedale del sustain o per la stessa idea di stasi estatica, e in qualche frangente mi pare di ascoltare una versione zen di “Changeless” del trio Jarrett-Peacock-DeJohnette (in questo caso però niente temi, niente groove, niente timing, solo una pulsazione naturalissima e aliena), le pareti quasi smettono di essere rigide (ricordo un effetto simile quando ascoltai in fungo per la prima volta Laughing Stock dei Talk Talk) e si arriva fino al nocciolo di qualcosa che non si riesce a dire, e che è quello che ci fa fare quattro ore di autostrada di martedì sera dovendo essere al lavoro come ogni comune mortale il mattino dopo. Stupore e un silenzio colmo di mille cose per un primo set che, incentrato su di un haiku commosso ed etereo ma mai retorico od enfatico, mi ha portato vicino alle lacrime, e fa lo stesso se suona ingenuo o poco professionale dirlo: amatori siamo, nel senso letterale del termine.
Dopo una pausa di quindici minuti in cui c’è chi assale il nutrito banchetto del merchandising, chi semplicemente raccoglie le idee dopo questa vera e propria seduta di psicoterapia acustica, chi indugia ammirato davanti alla batteria di Tony Buck per capire come diavolo riesca a produrre quei suoni senza usare nulla che non siano tradizionali attrezzi da percussionista, si riparte. Il secondo set comincia stavolta con il contrabbasso, e sono ombre di classica che guarda a Oriente, dopo sembra quasi un hillbilly cosmico (l’Orchestra of Excited Strings di Arnold Dreyblatt), poi ancora steppe desolate come un Morton Feldman, una musica lunare e imprendibile che sale come una marea, senza baricentro, senza gravità, senza variazioni percettibili eppure piena di luoghi e tempi, capace di abolirlo, il tempo, di farci finalmente guardare le cose con gli occhi aperti verso dentro, con la nostra curiosità superflua, afflizioni e paure di modesta portata, e la voglia, la nostra voglia di guardare le cose da sei lati.
La divisione in cielo e in terra
Non è il modo appropriato
Di pensare a questa totalità.
Permette solo di sopravvivere
A un indirizzo più esatto,
più facile da trovare,
se dovessero cercarmi.
Miei segni particolari:
incanto e disperazione.
(Ibidem, Wisława Szymborska)
Un’esperienza (soprattutto nel primo set, di un’intensità rara), più che un concerto. Capace di spiegarti le stagioni di un’ora e le età di un minuto, e di alleviare per un’ora e mezzo tutti i secoli che portiamo sulle spalle.
The Necks: un gruppo necessario.