THE DEVILS, Beast Must Regret Nothing
Quando vendi l’anima all’Oscuro Signore, non si torna più indietro. Insomma, ci sono ancora delle certezze in questo mondo sottosopra. I partenopei The Devils – la ragione sociale deriva dall’omonima pellicola di Ken Russell – pagano pegno a corna, zoccoli e quant’altro, procedendo con il loro nuovo album Beast Must Regret Nothing, pubblicato da Goodfellas, a seguire Sin, You Sinners! del 2016 e Iron Butt del 2017, ai tempi usciti per Voodoo Rhythm e prodotti da Jim Diamond (The Dirtbombs, The Sonics, The White Stripes). Stavolta in cabina di regia e a dare una mano agli arrangiamenti, nonché in parte delle esecuzioni, c’è Alain Johannes, presenza fissa nei giri di Queens Of The Stone Age e affini. Johannes contribuisce anche alla title-track, trasportandola da par suo nei pressi del Joshua Tree, mentre è il suo illustre, inseparabile amico Dark Mark Lanegan a prendere il microfono in “Devil Whistle Don’t Sing”, con il suo timbro baritonale-marchio di fabbrica da sermone andato (a) male.
Insomma, sono sempre devoti al punk blues ma più orientati idealmente verso le sonorità del deserto, Gianni Blacula e Switchblade Erika, chitarra e batteria, entrambi alle voci, selvaggi e lascivi, per shottini da perfetto copione r’n’r, da bersi magari in compagnia dei primi Boss Hog. Subito roboanti e persino squisitamente trash nell’avvio strumentale di “Roar”, da gospel degenerato in garage sabba per chiese sconsacrate nel personale omaggio a Carmelo Bene di “I Appeared To The Madonna”, ispirati all’elettricità di Jimmy Reed nella classica “Real Man”, che parla di una puttana che vaga in un mondo senza marciapiedi, e a tutto fuoco nella tiratissima “Life Is A Bitch”. Il resto della scaletta funziona rumorosamente bene con le varie “Time Is Gonna Kill Me” e “Roll With Me”, mentre “Don’t Call Me Any More” è una potenziale hit scissa tra melodia old school e furore fuori controllo. Beast Must Regret Nothing è stato registrato in due settimane a Napoli, successivamente mixato a Los Angeles, e le undici tracce in esso contenute restituiscono sia il pigio cartavetrato della dimensione dal vivo, sia un calore che asseconda maggiori nuance rispetto al recente passato, nonché l’epica cinematografica della sua primordiale narrativa di fondo. Ci si diverte. Nel nome del Maligno che è in noi, del terzo figlio discografico e dello spirito alcolico.