THE BODY + OVO + END OF A SEASON, 16/4/2014
Bologna, Freakout.
Arrivo con calma, ormai abituato ai fin troppo prolungati ritardi del Freakout, e con stupore mi accorgo della non esagerata affluenza, ma d’altronde, se un concerto comincia alle undici anche di mercoledì, è difficile riuscire a esserci per supportare l’evento. In ogni caso il locale si riempie in modo discreto verso l’inizio dei live.
Il trittico di voci urlate inizia dagli End Of A Season, formazione di Reggio Emilia molto presente in ambiti bolognesi. Senza prestare troppa attenzione al pubblico, salgono sul palco e non esitano ad attaccarci con un post-hardcore che mi incuriosisce molto per le sue torbide sfaccettature. Mischiati a evidenti influenze crust, ma senza farsi rapire dal marciume, i riff riemergono atmosferici e spesso rallentano per infangarsi nella densità dello sludge più cupo. Bene s’inserisce la voce secca della cantante, che come una scheggia sotto un’unghia si conficca nelle nostre orecchie. Se avesse urlato più verso il pubblico e meno verso la band, avrebbe reso ancora meglio. In ultimo si sente che la brulicante scena stenchcore emiliana ha impresso un po’ del suo odore anche qui, e questo tanfo sonoro, velato, regala un’identità al gruppo.
La mattonata iniziale mi ha messo dell’umore giusto per proseguire, soprattutto visto il secondo nome a salire sul palco. Non troppo tempo fa ho visto – per la prima volta con la “nuova attitudine” – gli OvO al Transmissions di Ravenna, ed era stato un po’ uno shock. L’aggiunta del pad e la conseguente elettrizzazione della batteria mi avevano un po’ confuso: stasera li rivedo con occhio ancora più critico, ma penso che pian piano il messaggio stia giungendo chiaro. Le prime note – o semplici rumori – generate dal vetro sulla chitarra mi fanno esaltare e, quando gli effetti di batteria martellano, restare fermi diventa impossibile. Da poco senza maschere, il duo Bruno Dorella-Stefania Pedretti ha deciso di aggiungere qualcosa ai suoi temi voodoo e rituali, che vengono imbevuti nel peggior rum dei bar di Caracas. Abisso, ultimo album del progetto, ricorda l’andamento delle onde marine, solcate magari da un vecchio galeone sul quale una festa balorda ubriaca le storie di pirati vagabondi. Visto che – ad eccezione di “Marie”, che non viene eseguita alla perfezione per colpa di una distorsione sbagliata – la scaletta prevede quasi solo brani tratti da questo disco e dall’ep appena uscito (Averno/Oblio), l’umore non può che essere parimenti inebriato e oscuramente festoso. Di sicuro le danze di ?Alos guidano i miei sensi. Le nuove canzoni dimostrano di rendere molto bene dal vivo e gli OvO sbocciano un live sensazionale, malgrado qualche errore di concordanza nel corso di “Averno”, che li lascia impassibili. La sperimentazione non manca mai, e questo passo un po’ azzardato comincia a rivelarsi una carta vincente, anche se un po’ di malinconia rimane.
La carica di polvere da sparo di cui mi hanno nutrito gli OvO sarà detonata solo dalla visione di tre enormi ampli rivolti verso le mie orecchie: oggi si rischia l’udito. Basta lo sfiorare delle corde e mi sento travolto da un trattore, l’idea che le sue ruote stiano calpestando il mio corpo non riesce a svanire, sono estasiato. Penso solo i Sunn O))), Earth, Eagle Twin e pochi altri siano riusciti ad eguagliare la forza fisica che in questo momento i The Body scagliano contro il pubblico. Non si tratta solo di volumi alti, che in questo caso non sono neanche eccessivi se confrontati ai live di Keiji Haino, Black Dice o altri in quel genere, è proprio la sensazione di toccare quello che esce dalle casse ad avere dell’incredibile. La percezione delle funzioni delle orecchie è chiarissima, ogni singola parte compie il suo lavoro al massimo. Per rendere l’idea, in alcuni pezzi dei The Body la chitarra sparisce da un momento all’altro: in questi casi il (nostro) corpo, abituatosi a rimanere appoggiato a un volume che in qualche modo sembrava sorreggerlo, si ritrova nel vuoto, così al cervello pare di perdere l’equilibrio. La sala, per inciso, si svuota in breve tempo, come accade per ogni concerto che abbia una sfaccettatura estrema. Noi rimaniamo e notiamo una sola imperfezione, tra l’altro prevedibile, costituita dalla resa per intero di I Shall Die Here, un disco che presenta una vasta gamma di generi (anche elettronici, con tratti post-industrial) e che quindi non riesce a essere riprodotto in modo fedele. La funzione del live è più quella di farci vivere i The Body nel loro essere dei colossi intenti a prendere a pugni le orecchie altrui con riff che, se ben ascoltati, rivelano anch’essi delle pseudo-melodie molto più apprezzabili di quanto si pensi. Chip King si porta un mangiacassette per montare i sample che costituiscono gli intro delle canzoni e – mentre ci ara con il motore della chitarra – sbraita contro tutti le incomprensibili parole dei testi. La ferocia, e allo stesso tempo la grinta, con cui le urla vengono generate, incanta e soddisfa chi è intento in corposi movimenti di capo davanti alle tre Marie delle casse. Le orecchie fischiano, la notte è lunga e le orecchie fischiano.