THE BLANK CANVAS, Vantablack
Venticinque anni fa usciva The Downward Spiral dei Nine Inch Nails. In questo periodo, venticinque anni dopo, esce il debutto dei The Blank Canvas. Quali similitudini stilistiche ed artistiche ci possono essere tra i due dischi? All’apparenza, dopo un ascolto superficiale, magari nessuna. Ma l’ascoltatore più attento troverà più di un assomiglianza, non solo a livello musicale, ma di attitudine. Vantablack, composto da nove canzoni, prende in eredità il suono archetipo di Trent Reznor e lo catapulta in ambienti quasi cinematografici. Psichedelici. A tratti progressive. Un manifesto sonoro che muta a seconda delle emozioni da musicare, ma che mantiene pur sempre un’identità di fondo. Ne è testimonianza la canzone che dà il titolo al disco, un impulso elettro-industriale del maestro americano che però rimanda all’urgenza nichilistica degli Orgy più sintetici.
Quelli di Vantablack sono brani con un piglio quasi radiofonico, ma il lavoro in fase di arrangiamento è quasi perfetto. La ricerca di ogni dettaglio, dalla composizione, passando per l’esecuzione, fino a arrivare alla produzione, sono frutto di un duro lavoro che all’interno del disco si percepisce. La vena malinconica della dark wave metalizzata dei Deftones viene fuori in “Ride The Flow”, per poi nel finale trasformarsi in una suite prog dei migliori King Crimson di Red. All’interno di questa canzone ci sono tutti i The Blank Canvas e la loro capacità di far coabitare più stili con semplicità facendoli suonare insieme, con un amalgama pazzesco di groove ed armonia. Un disco eterogeneo, ma omogeneo nella proposta, un disco eclettico, molto sofferto, oscuro, sintetico. Un disco che, se fosse uscito qualche anno prima, avrebbe fatto sfracelli di vendite. Ad ogni modo avvicinare i The Blank Canvas ai padri non significa che la band italiana sia priva di personalità. Anzi. Significa, che il talento e la bravura dei quattro musicisti fiorentini può confrontarsi anche con gli alieni. Un auspicio perché Vantablack non sia una meteora.