Terraforma #4 – Intervista a Ruggero Pietromarchi
Sta per partire la quarta edizione della tre giorni che si tiene alle porte di Milano. Abbiamo sentito la voce di Ruggero Pietromarchi, colui che tiene in mano le redini del festival insieme a un nutrito staff di validi collaboratori. A voi le sue parole. Naturalmente il consiglio è di vivere e godere appieno questo tipo di esperienza immersiva.
“Terraforma is the manifest of our belief that new dimensions can now be terraformed. A three days festival where music is the catalyst: a timeless centre of gravity for energies, with a breaking point from which sounds and images create a sense of suspension capable of pointing us towards new perceptions”. Sin dall’intestazione si evince che Terraforma continua a porsi un obiettivo, peraltro impegnativo, quello cioè di ricreare una sorta di situazione musicale in armonia col mondo. Da quali esigenze nasce l’evento e perché avete deciso di puntare sul concetto di natura applicato alla musica? Sto chiaramente semplificando…
Ruggero Pietromarchi: L’idea parte dal creare una esperienza ben specifica, una situazione tale per cui i partecipanti, dal pubblico agli artisti, dagli operatori a tutta l’organizzazione, viene messa in una situazione tale per cui è in grado, tra virgolette, di lasciarsi andare, nel senso: l’artista si sente a suo agio ad esprimersi e quindi cerca di dare il meglio o di creare qualcosa di nuovo, di stimolante, il pubblico allo stesso tempo è ricettivo in una maniera diversa da quello che può essere il classico concerto diciamo delle ore 21… anche perché al festival ci sono suoni molto diversi, non convenzionali, la maggior parte del pubblico non viene perché conosce questo artista piuttosto che quell’altro, non conosce il programma, ma è incuriosito magari dall’atmosfera, dal progetto in sé. C’è proprio quest’idea di creare le situazioni ideali affinché i partecipanti si sentano a loro agio e quindi si lascino andare, una situazione dove finalmente si abbattono le barriere e si riesce ad accogliere senza preconcetti di alcun tipo della musica che magari non si avrebbe ascoltato in altre occasioni.
Siete arrivati al quarto anno. Quanto è cambiato il festival rispetto alla prima edizione e chi c’è dietro all’organizzazione? E poi, come avete scelto la location? Ricordo che è una residenza nobiliare sita a Bollate, in provincia di Milano…
Esatto. Le esigenze sono due, come dicevo: una, fare in modo che le persone si sentano il più a loro agio, aperte a recepire gli input che noi vogliamo dar loro attraverso la musica. La natura secondo noi rappresenta l’habitat ideale, perché c’è una tradizione per cui musica e natura si esprimono all’unisono al loro meglio. Villa Arconati in realtà arriva perché ho lavorato per diversi anni per una casa di produzione che si chiama Ponderosa, che organizza diversi festival in Italia, tra cui proprio il festival di Villa Arconati, che esiste da vent’anni, così sono venuto a conoscenza di questo posto. Mano a mano che abbiamo iniziato a sviluppare i nostri progetti più legati a un concetto di sperimentazione, ci siamo voluti confrontare con un progetto impegnativo come quello del festival Terraforma e Villa Arconati ci è sembrata subito il luogo ideale, perché oltre a essere di fatto a venti minuti da Milano, facilmente raggiungibile da un grande centro, ti fa sentire come già catapultato totalmente fuori da un ambiente urbano, e poi rappresentava per noi il perfetto esempio di un bene importantissimo per questo Paese, un bene culturale con tutto il suo retaggio storico, per il mondo insomma. Quella degli Arconati è stata una famiglia importantissima per il territorio lombardo, erano dei grandissimi collezionisti d’arte, furono loro a recuperare il Codice Atlantico e poi il centro della Pinacoteca Ambrosiana, e quindi ci piaceva moltissimo l’idea di poterci confrontare con un luogo dalla Storia così importante e cercare di dargli qualcosa che ha sempre difficoltà in questo Paese, un valore aggiunto attraverso una sorta di reinterpretazione in chiave contemporanea, quindi un posto del genere, dove oggi avvengono poche, non tante manifestazioni, cercare di portare un pubblico diverso, non quello solito, dandogli anche una sorta di valore aggiunto perché poi di fatto questa villa gigantesca, con un parco di quattro ettari ha un grande difficoltà nel 2017, intanto non ha un vero e proprio scopo, non può più essere un’unità immobiliare come era in passato, chiaramente ci sono delle restrizioni dal punto di vista delle arti, dalla Soprintendenza, quindi non puoi neanche tramutarlo in un esercizio commerciale, sarebbe un delitto. Quindi anche l’idea di supportarlo, di portare nuova linfa, di portare un contenuto diverso attraverso quelli del festival, e poi anche praticamente quello che è il nostro progetto di sostenibilità che dal primo anno investe in Villa Arconati nel recupero e nel mantenimento delle aree verdi del parco. Perché appunto, oltre ad essere una villa pazzesca, c’è un giardino all’italiana meraviglioso che ha bisogno di risorse infinite per il suo mantenimento. Quindi l’idea di non andare in un palazzetto, in una fiera, in un club, in un’ottica di lavoro a 365 giorni l’anno. Da un lato la possibilità di perdersi in mezzo a questo parco, nel quale s’è persa ogni traccia dell’architettura paesaggistica originaria – sembra di stare davvero in mezzo a una foresta – dall’altro dare una mano a questo luogo storico, importantissimo, ed a ritrovare un senso nella contemporaneità.
Il programma è interessante, direi che rimane la voglia di unire un’elettronica più di “ricerca” a specifici dj-set. I nomi che avete coinvolto sono prestigiosi.
Sì, in generale il lavoro di Terraforma non si ferma mai. Da un lato la ricerca per quanto riguarda la programmazione è un flusso continuo che già in questo momento è proiettato al 2018, per dire. Poi ovviamente c’è tutta la parte organizzativa che è molto complessa, dicevo anche la scelta, il tipo di lavoro che stiamo facendo sulla venue implica un grandissimo lavoro di preparazione, anche semplicemente di conversazione tra tutte le parti: la villa, la Soprintendenza, gli architetti, i paesaggisti. Mentre per quanto riguarda la ricerca diciamo che avviene in continuazione, per quanto mi riguarda, sono io che curo l’intera programmazione. In questi anni mi sono costruito il mio schema, che è poi anche la proposta del festival, di venire a provare questo percorso di suoni che si dipana nei tre giorni iniziando dal tramonto di venerdì e finendo al tramonto di domenica, con appunto diversi generi, diverse tipologie di concerto e di suono, secondo un po’ le ore del giorno e della notte. Quello che cerco di fare è tenere sempre una sorta di equilibrio molto difficile però, neanche impossibile, alle fine sono sempre venti artisti, la base deve essere sempre con degli artisti che secondo me diano attraverso il loro percorso di ricerca la capacità di comunicare qualcosa di interessante per quanto riguarda la contemporaneità, il mondo che ci sta intorno, questo è un po’ un punto chiave. Sempre senza mai cadere nel manierismo o in un esibizionismo, o di una cosa frutto di un hype, ma sempre cercare quegli artisti, anche del passato, che abbiano comunque una visione presente, di quello che sta succedendo intorno, ad esempio Charles Cohen un paio di anni fa, Charlemagne Palestine lo scorso anno, Suzanne Ciani in questa edizione, tutti per me hanno fatto la Storia della musica, però allo stesso tempo li trovo estremamente consapevoli rispetto a quello che sta succedendo intorno, non è un’operazione di nostalgia, da quello mi voglio totalmente distanziare. E poi come dicevo, l’equilibrio è fatto di tanti momenti della giornata, dalla mattina alla notte, il tramonto, sono molto importanti per me quei momenti per definire un certo tipo di musica, non mi ascolterei mai un concerto folk alle 4 di notte, come non andrei mai a mettere della musica techno alle 10 del mattino, quindi già queste cose sono un po’ la mia bussola. In più cercare quegli artisti che secondo me stanno esprimendo una visione sul contemporaneo, hanno anche un’esperienza di come confrontarsi con un pubblico di un festival, perché anche questo è un percorso di maturazione da non dare per scontato, ci sono moltissimi artisti giovani che secondo me non sono ancora pronti per esibirsi su un palco di un festival, perché non hanno esperienza, anche semplicemente con un sound-system di quelle proporzioni. È importante l’aspetto del suono, di come uno riesce a far uscire il suono dall’impianto. Un’altra idea fondante è quella di cercare di evitare a tutti i costi l’idea di un headliner, di affrancarci da quell’idea di eventi e di proposte, piuttosto cercare di avere una programmazione che funzioni dall’inizio alla fine, per questo che puntiamo molto sull’idea del campeggio, dell’esperienza, secondo me il programma del festival è studiato in quel senso, è fatto apposta perché uno possa piantare la tenda alle sei del pomeriggio e iniziare il suo percorso dalle nove di venerdì alle nove della domenica, non ci sono sovrapposizioni di spettacoli, è un flusso continuo, piano piano sto cercando in questi ultimi due anni di espanderlo sempre di più all’interno del parco, nel senso che i primi anni era puramente incentrato sul nostro unico palco, mentre in questi ultimi due stiamo cercando di creare proprio dei percorsi all’interno della location, mi piace proprio l’idea di muoversi nei vari angoli del giardino attraverso la musica.
Per quest’anno vi siete avvalsi della collaborazione di Francesco Cavaliere per l’artwork. Ho potuto notare che, oltre al consueto discorso sulla sostenibilità ambientale, avete pensato anche ad un’area bambini. Insomma, si tratta di un discorso a tutto tondo, no?
Il discorso dell’artwork arriva da diverse ragioni. Fondamentalmente a me piace lavorare con gli artisti, una delle soddisfazioni più grandi che mi arrivano da questo lavoro è proprio il potermi confrontare con queste persone che non fanno altro che interrogarsi e cercare di tradurre attraverso la loro arte quello che ci sta intorno. Mi piace confrontarmi, scambiare pareri e informazioni; dall’altro cerco di dare un senso a tutte le nostre esigenze, quando mi viene in mente di elaborare un artwork per il festival. Altri scelgono un tema per ciascuna edizione, attraverso il quale io faccio difficoltà a ritrovarmi, a volte diventa un po’ pretestuosa la scelta di questo tema, è molto difficile e diventa un limite a volte più che un vero momento di confronto. Preferisco individuare un artista e chiedergli di confrontarsi con l’idea del festival, intesa come il nostro progetto. Gli racconto dell’evento se non lo conosce, nel caso di Francesco c’era un’altra grande prerogativa che è quella di cercare sempre di lavorare, di costruire delle storie, per dire. L’anno scorso abbiamo iniziato a lavorare con lui, che è venuto al festival a presentare Gancio Cielo, che aveva fatto uscire su Hundebiss, ed è nata una sorta di piccolo amore, gli avevo chiesto di fare addirittura due spettacoli, e quindi in maniera spontanea mi è venuto di chiedergli di lavorare su questo artwork confrontandoci sulle tematiche di terraformazione, e da lì le carte mutaforma. Questi artwork vengono fuori da una riflessione sul festival in sé. L’area bimbi è stata un po’ un mio pallino, è una cosa che mi interessa molto sviluppare al di là del servizio in se e per sé, trovo essenziale proprio l’energia dei bambini – l’idea un po’ paradossale forse – ma li vedo quasi come un’installazione, una cosa per settare il mood, trovo che i bambini abbiano un’energia positiva incredibile, e quindi l’idea di metterli al centro del festival – ovviamente cautelati e via dicendo – trovo che possa semplicemente far sentire al pubblico, non per forza tutti genitori, che chi va al festival si possa settare diciamo in un mood molto specifico… Ho coinvolto gli architetti di Parasite 2.0, che negli ultimi anni si cono confrontati con delle strutture per bambini presentandole al MAXXI, c’è l’allestimento fatto assieme agli architetti di ATZ, poi coinvolgendo una giovane ragazza che da un paio d’anni sta sviluppando un progetto in inglese dopo la scuola a Milano, insomma si cerca sempre di lavorare con dei ragazzi che come noi provano a fare le cose fatte per bene e in maniera autoriale.
Mi sono spesso trovato a riflettere sul fatto che in Italia i festival interessanti, e più alternativi, non mancano affatto. In genere associo questa opinione a eventi con prevalenza di musica più o meno elettronica, oltre a voi il Club To Club, il Live Arts Week per fare un altro paio di esempi tra i tanti… quelli dal taglio più rock forse soffrono di più, o forse no. Sei d’accordo con questa mia interpretazione?
Assolutamente c’è spazio per tutti. Io cerco di non pormi mai problemi di questo tipo, perché è bellissimo che le cose nascano e triste che muoiano, ma fa parte del gioco. Ovviamente, questo deve essere chiarissimo, nel rispetto della co-abitabilità tra progetti. Non credo sia una questione di soldi, l’industria rock-pop-mainstream credo che sia imbattibile, da poco c’è stato questo concerto dei Guns N’ Roses con tantissima gente, una roba incredibile. Poi io non ti so dire perché uno poi si crea un mondo, molte volte nel nostro mondo diventa difficile anche avere le proporzioni, mi sembra di leggere e di sentire delle cose… non siamo al centro del mondo, in verità siamo proprio alla periferia, si tratta di un mondo totalmente di nicchia ed underground, e quindi bisogna porsi delle domande tipo di che parte siamo dell’universo? Dall’altro non conosco bene la scena rock e indie, cosi su due piedi, sì, anch’io ti direi che vedo fiorire molti più festival di musica elettronica, ma dire che cos’è la qualità nel mondo del rock o dell’elettronica, non saprei dirti. Mi viene in mente il Rototom Sunsplash, il festival reggae col quale sono un po’ cresciuto che si teneva a Osoppo, e quello potrebbe essere inteso come festival generalista, però per me no, era un festival di grande qualità, era una qualità però nel suo mondo, era tutto un po’ relazionato a certi parametri, a degli specifici target.
Lo scorso anno avete pure organizzato una data di avvicinamento al Terraforma che si è tenuta all’Hangar Bicocca, avete chiamato i Boredoms dal Giappone. Quest’anno vi siete mossi in modo diverso se ho capito bene…
Sì, però abbiamo fatto una cosa molto più impegnativa, un progetto di due date con il sound system che si chiama Killasan. È stata un’impresa molto complessa però anche abbastanza ambiziosa, abbiamo fatto venire da Berlino un camion gigantesco con un sound system dub, che ha fatto la storia della musica, costruito in Florida per il club reggae più importante di Osaka negli anni Novanta, che poi ha chiuso ed è stato in parte trasferito a Berlino, dai ragazzi di Hard Wax, quelli della scena originale della Basic Channel, Maurizio, etc. Lo usano da diversi anni, noi l’abbiamo messo su un camion, l’abbiamo fatto arrivare in Italia, era un Terraforma showcase, da BASE a Milano e all’Ex Dogana a Roma, dove insieme a Rabih Beaini e Burnt Friedman, la Beatrice Dillon, o altri ragazzi che hanno suonato al festival, c’era tutta la scena berlinese, Mark Ernestus & Tiki Man, e via elencando.
Cosa vi aspettate in particolare e che tipo di conferme vi augurate di registrare per questa nuova edizione?
In realtà ci aspettiamo di crescere, come tutti gli anni – nonostante la pioggia in alcune occasioni – il festival è cresciuto, magari con un pizzico di fortuna, senza avere troppa pioggia negli orari clou, nel senso che oltre ai biglietti per tutti e tre i giorni abbiamo anche i biglietti giornalieri, che chiaramente sono molto in balia del meteo. Abbiamo una grossissima fetta di pubblico internazionale, ho potuto vedere i primi numeri e sono eclatanti, più del settanta per cento degli spettatori è straniero. Le novità di quest’anno sono tante piccole novità, secondo me sono molto più importanti perché lo schema musicale è simile a quello dell’anno scorso, diamo più visibilità a questo progetto del labirinto, che abbiamo iniziato nel 2016, che fa parte del nostro progetto di sostenibilità di cui ti raccontavo prima, abbiamo ripristinato un labirinto del giardino del Settecento, abbiamo messo la seconda cerchia di piante e ci sarà più di uno spettacolo pensato ad hoc al suo interno. Ci sarà un’installazione audio-visiva che è una collaborazione tra l’accademia di Bergamo e la Naba di Milano, ho messo insieme Yuri Ancarani, regista che insegna alla Naba, e Riccardo Benassi, impegnato più sul lato sonoro e vive a Berlino e insegna a Bergamo. Ci saranno delle bellissime talk, una con Suzanne Ciani che secondo me è abbastanza imperdibile, e stiamo stampando questo piccolo libretto che racconta la storia e la botanica del giardino di Villa Arconati. Sono molto felice perché lo daremo a tutti gli spettatori che cosi avranno modo di conoscere la storia di questo giardino che andremo ad usare per questi tre giorni.