Tera Salvaria, 12/7/2014
Badia, San Cassiano.
In Italia abbiamo la fortuna di avere alcuni festival di dimensioni non esagerate che trattano temi specifici in modo molto approfondito, spesso curati da artisti o comunque in modo molto professionale. Mi riferisco, ad esempio, a Transmissions, Live Arts Week, Three Days Of Struggle, AUNA e, per fortuna, a moltissimi altri. Tra questi a mio avviso spicca per originalità e bellezza il Tera Salvaria, quest’anno arrivato alla sua terza tappa. All’inizio ero indeciso se scrivere questa recensione, perché avevo paura che il maggior flusso di persone di quest’anno avrebbe incrinato l’intimità e la semplicità del 2013, ma per vari fattori non è stato così. Dopo due giorni di hiking sulle dolomiti di San Cassiano tra il parco naturale Fanes, il lago Lagazuoi e passo Falzarego, arrivo con tenda e zaino nello spiazzo alle falde delle montagne, all’ingresso di un bosco che accoglie questo evento che fa del contatto con la natura il suo manifesto, anteponendolo alla musica. Si nota subito, come accennavo, che la partecipazione è maggiore rispetto al passato e che è un ottimo momento per il nuovo folk. L’anno scorso solo poche persone erano raccolte intorno al fuoco ad ascoltare le chitarre dei musicisti, oggi lo spazio per le tende è quasi al completo, ma comunque il festival rimane fedele alla sua impostazione rispettosa dell’ambiente circostante: niente elettricità, illuminazione a lanterna e concerti in acustico. Un paio di capannoni ricoprono un punto ristoro dove servirsi di ottima zuppa, mentre un altro protegge le preziose distro tra le quali si possono trovare oggetti di culto come i nuovi dischi prodotti da Aorta o il merch del Tera Salvaria. L’inizio è segnato da alcuni giochi educativi per bambini, che vengono edotti sulle leggende del luogo e si inoltrano nei boschi. Poco dopo (il cielo è ancora luminoso) veniamo attratti da uno spettacolo durante il quale viene raccontata la storia di un falco e di un gufo (presenti concretamente) e di come funziona il lavoro del falconiere.
Il festival procede con calma e l’introduzione musicale viene riservata ad un gruppo di ragazzi della Al Plan Folk Fest Crew (chitarre, fisarmonica, tamburi e doppia voce femminile), che si sono messi insieme spontaneamente per suonare alcuni pezzi tipici del territorio ed altri composti da loro. Quello dell’Alpen Folk Fest Crew, come tutti i concerti successivi, è proiettato verso gli alberi e le rocce, davanti ad un totem realizzato con rami e ossa, tutti elementi che completano la musica già di per sé melodiosa e allegra dell’ensemble.
I secondi a salire sul palco sono i Death Of Abel: abbiamo di fronte un progetto neofolk capace di regalare quattro potenti tracce nella tape A Cruel Steak, anche se questa potenza subisce un non indifferente calo di magia dal vivo, poiché la situazione del Tera Salvaria comporta l’abbandono degli effetti per la voce, colonna portante “in studio”. Gli elementi dark apportati dalle chitarre non riescono a mantenere viva la parte vocale, che risulta appunto molto meno profonda di quanto ci si aspettava. Questa è la seconda volta che i Death Of Abel suonano qui e la formazione adottata oggi prevede due cantanti, ma appunto le voci sono troppo forzate e lasciano vedere i loro limiti. Musicalmente, invece, si tratta di qualcosa senza infamia e senza lode, con giri di chitarra classici che ricordano i Death In June, ai quali è dedicato l’ultimo pezzo, che è una cover di “The Mourner’s Bench”.
Un altro rappresentante del Tirolo è l’autrice di libri Margareta Fuchs: la sua presenza al festival non fa che rafforzare l’atmosfera nordica e leggendaria del tutto, grazie alle storie e ai miti da lei raccontati in varie lingue, e qui ringrazio le traduzione in diretta che una gentile signora mi ha fatto, così ho potuto capire gli aneddoti dietro molti dei luoghi che ho visitato in questi giorni. Durante i racconti della Fuchs cala il buio e con esso viene fuori anche la luna, ma non una qualsiasi: il fato vuole che proprio stasera ci sia un Lunar Perigee, cioè una luna molto più grande del solito e che aiuta a portare maggiori emozioni, del tutto riscontrabili in questa serata più unica che rara.
I concerti continuano sotto il cielo sempre più scuro e nuvoloso con i napoletani Urna, che richiameranno la pioggia con i loro rituali musicali. Con questo set il genere si sposta verso il ritual ambient strumentale, ma la componente folk non viene abbandonata. Ogni pezzo viene dedicato a uno strumento diverso, tra corde, fiati e tamburi, ed anche un sapiente utilizzo di una shruti box, che crea dei drone che aiutano a raccogliere gli animi attorno al fuoco da poco acceso. La musica immerge incanta gli spettatori e li immerge in una favola. Di sicuro gli Urna sono tra quelli che più hanno colto l’essenza del festival e ne hanno espresso “l’attitudine musicale”.
Solo una band a mio avviso riesce oggi ad essere ancora più evocativa e coagulante: gli In Gowan Ring. Secondo me con loro si raggiunge il climax della nottata. Quella con loro è un’esperienza mistica e ipnotica, un viaggio fra nazioni, idee e simboli raccolti dai vari viaggi di B’eirth per essere incisi nelle sue canzoni. Anche qui gli strumenti variano in continuazione: la maggior parte, se non tutti, sono stati fabbricati a mano dallo stesso B’eirth, che qui è accompagnato da altri due componenti tra cui Georg Börner dei ColdWorld. Di particolare emozionalità è un pezzo di arpa, delicato e introspettivo, mentre molto coinvolgenti sono i momenti di sing-along e il fatto che B’eirth, scalzo, sfidi il freddo e la pioggia che ormai ricoprono il festival per suonare più vicino al suo pubblico, finendo per entrare dentro di esso e terminare così uno dei concerti più intensi che questo genere abbia concepito.
La parte più mitica e fantastica del Tera Salvaria è rappresentata dai Tears Of Othila, veterani della musica medievale. Voci eterogenee, tamburi, fisarmonica e chitarra riproducono quasi per intero il primo album Renaissance!, con temi Turilliani che un po’ ricordano quell’atmosfera di borgo sui colli d’estate ed aiutano a rallegrare gli animi. Molto d’effetto il percussionista, che con una voce profonda e concitata regala, coi suoi cori, dei momenti intensi di epicità.
Come l’anno scorso saranno i Sangre De Muerdago a terminare la musica, così da accompagnare le menti alle tende. Il clima è sempre più freddo e il fuoco sempre più grande, ci si stringe sempre più alla ricerca di un minimo alito di calore mentre il gruppo spagnolo inizia a suonare. C’è da dire che nelle tre volte che ho visto questa band la scaletta non ha subito grandi modifiche, però – a differenza dell’anno scorso – la line up è più estesa e quindi il suono più avvolgente. I Sangre De Muerdago si caratterizzano per il forte messaggio dei loro testi, che viene spiegato di canzone in canzone. Queste vengono riprodotte in modo pacato e malinconico, anche perché spesso parlano di ingiustizie. L’inno agli alberi è spettacolare suonato in questo contesto, i pezzi nuovi dal vivo sono un’ottima continuazione dei lavori precedenti e non smentiscono gli attaccamenti musicali alternativi del cantante. Il pubblico è emozionato, ma d’altronde lo è stato per tutti i concerti, in quanto ognuno a suo modo ha fatto vedere uno sprazzo di originalità in ogni set.
La fine delle performance non coincide con la fine del festival, che continua intorno ad un’enorme fiamma dove conoscere amici nuovi e berci una birra gentilmente offerta dello staff. Qui si continua a discutere dei vari tragitti percorsi e di musica: socializzare guardando le Dolomiti è sempre uno spettacolo incomparabile. Quando l’ora è tarda, per paura del freddo sofferto la scorsa notte, mi addormento attorno al fuoco, ma solo per risvegliarmi all’alba che illumina le rocce possenti scalate in questi giorni.
Grazie allo staff del Tera Salvaria per le foto e per il magnifico ed unico evento: non si tratta solo di musica, ma di montagna e natura, che in questo festival si fondono ala perfezione con l’uomo e le sue arti.