Di tentacoli e abissi… Affondo nella discografia degli Architeuthis Rex
Gli Architeuthis Rex sono Antonio Gallucci e Francesca Marongiu, che hanno deciso di unire le loro energie e le rispettive carriere soliste ultra-underground. Va specificato che la band in origine nasce come creatura del solo Gallucci, mentre la Marongiu in passato ha pubblicato dischi coi nomi di Agarttha (tra i collaboratori dell’interessante A Water Which Does Not Wet Hands troviamo Reto Mäder di Ural Umbo e Sum Of R) e Crisne (un solo album, dalle forti atmosfere sci-fi, Albedo), prestando la sua voce pure in un disco dei Gog (Mike Bjella). Gallucci, invece, viene da numerose prove in solitaria, alcune piuttosto estreme tipo White Dwarf Spiral, throuRoof e Kapustyn Yar. Ha preso parte di recente all’album Ebb And Flow dei Dream Weapon Ritual di Simon Balestrazzi e Monica Serra, ma aveva in passato già messo in piedi collaborazioni col duo Sindre Bjerga / Jan-Morten Iversen e con Donato Epiro. Si occupa inoltre della fase di mastering di alcune produzioni odierne, oltre che come ovvio delle sue: è dietro molte delle uscite della milanese Haunter Records, per fare un esempio, ma ha messo le mani anche su alcuni dischi di area impro-folk napoletana: Wander e Drowning In Wood.
La nascita del calamaro gigante
Gallucci negli anni gira un po’ l’Italia, passando un periodo anche nella solita e affollata (di italiani) Berlino; successivamente si stabilisce a Roma grazie all’incontro con la Marongiu, ma da qualche tempo i due hanno scelto di operare nella più tranquilla campagna toscana. Il primo, come dicevo, viene da trascorsi legati in parte a sonorità piuttosto pesanti e generalmente rimane legato al lato più oscuro e chitarristico della faccenda psych-folk. Mi spiego meglio: se vi viene in mente, come penso, la definizione di italian occult psychedelia, sappiate che lui spesso è stato inserito in quel ribollente calderone che include alcuni dei suoi sodali dei tempi che furono, cioè il già citato Epiro e Valerio Cosi. Non a caso Antonio Ciarletta su Blow Up menziona gli Architeuthis Rex nella seconda puntata dello speciale dedicato a quelle sonorità.
Detto questo, però, Marongiu-Gallucci non sono propriamente due individui facili da circoscrivere all’interno di un solo fenomeno, pur se interessante e nebuloso come quello citato, quindi è logico – soprattutto onesto nei confronti di chi legge – specificare che la loro proposta risulta a tutt’oggi ancora singolare; viene da lontano insomma, per andare ancora non si sa bene dove…
I dischi
Un primo lavoro, breve e datato 2009, è The Suicider’s Shoes, ep in condivisione con Slowmantra (interessante il misterioso e torbido lavoro a nome Pozzo D’Antullo per la Black Moss), dove Gallucci fa tutto in proprio, tra paturnie noise, “The Suicider’s Shoes (for Sole e Baleno)” e rilasci tensionali sul limitare di una minacciosa ambient-drone in “A Pagan Prayer”. Nello stesso anno Antonio divide un cd-r coi francesi Monks Of The Balhill.
This is one of those kind of albums that is impossible to pigeonhole in any sort of specific genre. There’s some drone elements, but those are mostly overshadowed by tribal drumming. There’s dubby production, but also layers of noise and mutated psychedelic rock. All the while there’s a little bit of metal here and there. Named for a giant squid, this Italian project certainly has its tentacles entangled amongst themselves to create an unclassifiable blur, but it’s a compelling racket. (Creaig Dunton – www.brainwashed.com)
L’esordio lungo come “calamaro” è datato 2010, si intitola Dark As The Sea ed esce per Utech Records (Nadja, Locrian, Ural Umbo e altri prestigiosi carichi pesanti). Sette tracce molto articolate, create da un ipotetico sciamano, dove si tenta di mettere in gioco atmosfere evocative (“We Dream The Seashore”) conciliando copiose chitarre e generale afflato etereo, la complessa “Cephalopedie” è emblematica in tal senso. Un album per l’etichetta di Keith Utech è chiaramente qualcosa di ben ponderato, di profondo, passatemi la banale considerazione, perciò non deve meravigliare se aleggia un che di sacro e orientaleggiante abbinato a forte rumorismo alieno (la title-track) o se addirittura il cantato assomiglia a quello di un muezzin intrappolato in una gabbia rumorosa in “Another Kind Of Blue”, venti minuti tondi di piacevole e profondo disagio. Brainwashed se ne accorge e naturalmente sottolinea il fatto che rimane lavoro difficile da incasellare.
Passa poco tempo e nello stesso anno vede la luce The Blyssynge Of The Salte grazie alla Sturmundrugs Records di Donato Epiro (metà dei Cannibal Movie). Lo stesso musicista pugliese è presente col suo flauto, insieme alle vocals di una certa Laura B. nel primo pezzo, “First Blyssinge” (in pratica una cangiante e articolata composizione dai consueti toni esoterici) e ad Aldo Becca di Palustre Records. Composto da tre lunghe tracce – due in particolare, la prima supera i venti minuti – con la centrale che fa quasi da intermezzo, è un album che lascia piuttosto interdetti per via di una cocciuta impenetrabilità. “Etreum..Sadness Erba” sa di rito propiziatorio, mentre “Last Blyssynge” ha un crescendo che ricorda vagamente quelli potentissimi di Leviathan/Lurker Of Chalice, stesso incedere minaccioso e voglia di seminare terrore nelle orecchie dei malcapitati. Ostico ma necessario, quasi un’auto-terapia da parte di Gallucci, che non a caso fa finire in un mare ambient ricolmo di immaginari chiodi tutta la tensione accumulata nei minuti precedenti.
Il 2011 viene pubblicata la cassetta Ignorance/Daemon a nome Torture Corpse / Architeuthis Rex (per la californiana Stunned Records). In pratica l’olandese Robert Kroos che si divide lo spazio con Gallucci, ed insieme vanno giù pesante: più sulfureo ed incandescente il primo (“Rumsfeld Theme” e “Ignorance”, la cinematica ed agghiacciante “The Abscence Of Self”), ovviamente marziale e inesorabile (“Daemon”) il calamaro.
Light is the left hand of darkness and darkness the right hand of light. Two are one, life and death, lying together like lovers in kemmer, like hands joined together, like the end and the way. (Ursula K. Le Guin, “The Left Hand Of Darkness”, 1969)
Sempre il 2011 è l’anno di un rimpasto importante: Gallucci ora non è più solo e vede accanto a sé proprio la presenza della Marongiu, che dà quel tocco di delicatezza espositiva che a Gallucci forse mancava. In un certo senso ora il progetto può dirsi più completo, in sostanza diverso, meno aggressivo e di certo più “meditato”. Urania esce ancora per Utech Records ed il risultato è un lavoro ancora più evocativo del solito, che ha dei crescendo particolarmente efficaci, d’altronde già la partenza che sale sempre più nei toni di “Spacemetal #1” mette bene in chiaro dove stanno andando i due. Una volta entrati in questo tunnel immaginario, resta poi difficile uscirne, tanto che “Basiliscus” sa di pezzo prismatico e disorientante ed “Anfitrite” va giù di pesanti sbuffi sci-fi e di atmosfere sinistre, sul limitare di una sorta di musica stregonesca (quei gorgheggi nella parte finale inquietano…). “Spacemetal #2” chiude il cerchio, mettendo a dura prova chi ha il coraggio di affrontare un viaggio tanto oscuro quanto affascinante.
Lunga pausa, costellata dai trasferimenti cui già accennavo, con poche date in giro per l’Italia e dall’uscita di un paio di produzioni per la loro Storm As He Walks: la francese Chicaloyoh (l’interessante cassetta Evaporation Of Widows) e gli svizzeri Sum Of R (il vinile di Ride Out The Waves).
Intanto riescono a pubblicare un’interessante cassetta per l’olandese Zeitgeists Publishing (specializzata proprio in tape con in catalogo, tra gli altri, Sutekh Hexen e Natural Assembly). Eleusis colpisce per una sorta di generale immediatezza che li porta ad impostare un discorso tanto dark quanto affascinante, vi bastino come esempi la scrittura perfetta della title-track o le asfissianti spirali chitarristiche di “Pomegranates”, appoggiate su una leggiadra base elettronica. C’è da registrare la presenza di un brano che ha fatto parte della nostra prima compilation, “Demeter Lousia”. I due trovano pure il tempo di prestare un inedito, “On A Flame Horned Mountain Stone In The Sun Disc”, per la compilation di Under My Bed Recordings “Burnt Circuits Kept…” di un paio di anni fa circa. Non vanno poi dimenticate le precedenti uscite per la finlandese Jozik Records, uno split omonimo in formato cassetta insieme a Banana Pill, Hobo Cubes e Mpala Garoo e un altro nastro, Foam, contenente un’unica rumorosa tempesta sonica, per l’inglese My Dance The Skull (da qui sono passati anche altri italiani come Silvia Kastel ed Ezio Piermattei, quest’ultimo in combutta con Dan Melchior).
Arriviamo dunque all’ultima, tribolata uscita, Stilbon Is Dead, questa volta per la tedesca Midira Records. La prima considerazione che viene da fare è che il suono non si è di certo ammansito ma, anzi, si è fatto ancora più corposo ed intrinsecamente materico, ma vi rimando alla recensione per i dovuti approfondimenti. Aggiungo soltanto che ora c’è un batterista stabile, Francesco Gregoretti di One Starving Day e Grizzly Imploded. Vedremo che reazione avranno i loro estimatori, visto che si tratta di un ritorno importante e maturo, che prova, riuscendoci, a rimanere in disparte da qualsivoglia ingabbiamento di etichette e generi. Gli Architeuthis Rex in fondo preferiscono proseguire per la propria strada, buia ed impervia, meglio così.
Intervista ad Antonio Gallucci e Francesca Marongiu (Architeuthis Rex)
Era logico approfittare di questo ritorno per sentire direttamente la loro opinione. Qui l’intervista che i due mi hanno concesso, utile a far luce su molti aspetti della loro storia.
Ce l’avete fatta infine a far uscire il nuovo album. So che è stato un lavoro lungo e faticoso, oltre alle registrazioni intendo, trovare anche una nuova etichetta a voi congeniale. Mi raccontate di com’è stato comporre questi nuovi pezzi e delle peripezie per vederlo pubblicato?
Francesca Marongiu: In un momento in cui per ogni label che apre ce ne sono due o tre che chiudono, ci riteniamo fortunati ad avere qualcuno che si prenda, a proprio rischio e pericolo, l’onere di pubblicare un nostro disco!
Scherzi a parte, nessuna peripezia particolare. A parte che l’album era pronto tre anni fa e doveva uscire su Utech, come i due precedenti. Il caso ha però voluto che il computer su cui erano tutti i progetti si autodistruggesse a master quasi ultimato, ed era un disco di improvvisazioni sovrapposte una sull’altra, quindi difficilmente replicabile. Nel frattempo avevamo ricevuto delle proposte per suonare dal vivo in un paio di festival e avevamo già iniziato a preparare un set più strutturato, da cui sono nati i primi pezzi di Stilbon Is Dead. Keith (Utech) ha poi deciso di non pubblicare più il disco, come molti altri di nostri amici e “colleghi”, per ragioni personali che non stiamo qui a spiegare. Siamo comunque rimasti in ottimi rapporti e siamo felici perché l’lp è uscito da poco (il 20 maggio) sulla tedesca Midira Records, che apprezziamo molto.
Antonio Gallucci: Non siamo mai stati l’esempio di stakanovisti dalle quattro e più uscite all’anno. Ci piace prendere le cose con molta calma e anche se suoniamo e registriamo regolarmente materiale, in genere non abbiamo mai pubblicato più del 10% di quello che produciamo, poiché preferiamo che le cose prendano i loro tempi naturali.
Ora torniamo un po’ indietro. Quando vi conoscete e perché decidete di focalizzarvi sugli Architeuthis Rex?
Antonio Gallucci: Il Calamaro Gigante decide e noi eseguiamo. Architeuthis Rex è nato nel 2006 come progetto mio in solo, dove poter sperimentare su poliritmie, strane accordature di chitarra e dinamiche più spinte rispetto agli altri progetti che portavo avanti in quel periodo, principalmente throuRoof e White Dwarf Spiral con Mike Donnely dei Brothers Of Occult Sisterhood (che erano più drone-ambient oriented).
Dopo Dark As The Sea ho iniziato a inserire collaborazioni di gente che sentivo affine (Aldo Becca, Donato Epiro e altri) anche se la scrittura è rimasta sempre in mano a me. Dal 2011 con Urania è entrata a far par parte in pianta stabile Francesca (Crisne, Agarttha) ai synth e alla voce. Francesco Gregoretti (Grizzly Imploded, One Starving Day, Many Others con Olivier Di Placido) si è unito a noi alla batteria e alle percussioni subito dopo l’uscita di Eleusis.
Naturalmente le carte in tavola a livello compositivo si sono complicate, perché tutti e tre veniamo da esperienze diverse e abbiamo cercato sin dall’inizio un equilibrio tra parti strutturate e altre più free, suggestioni space rock e dilatazioni più sperimentali.
Francesca Marongiu: Io e Antonio ci siamo conosciuti alla fine del 2009. Se non ricordo male io fingevo di scrivere per una nota webzine italiana e lui di avere un disco in uscita pronto per essere recensito, credo fosse il primo di Architeuthis Rex. Chiaramente non uscì alcun articolo, ma iniziammo a parlare di sette psichedeliche messe al bando da americani bacchettoni e rimedi naturopatici. All’epoca lui viveva a Berlino e io a Londra, così non abbiamo avuto occasione di vederci per un sacco di tempo. Nel 2011 siamo fuggiti da quelle grigie città e ci siamo ritrovati a Roma, dove io non dovevo pagare l’affitto e, poco tempo dopo, nemmeno lui.
Cosa vi aspettate da quest’ultimo disco? Io ad esempio l’ho trovato un po’ una summa di quanto fatto prima, in un certo senso è più “suonato” e potente, intendo maggiormente concentrato sul suono, le chitarre sono preponderanti, ma si sente forte la presenza di un valido batterista come Gregoretti.
Antonio Gallucci: L’idea di partenza era di creare qualcosa che fosse più vicino all’idea di suono dal vivo che ci piace: aperture avant, parti improvvisate, sospensioni e un lavoro sulla poliritmia che ci ha accompagnati sin dalle prime uscite. Naturalmente l’apporto di Francesco è stato decisivo anche nella scrittura; poiché erano anni che ci corteggiavamo a vicenda, non poteva che essere lui il folle designato a prendere il posto delle idee strampalate di intrecci ritmici che avevo creato fino a quel momento usando parti suonate da me e riprocessate in multi-traccia, insieme alle parti elettroniche. Diciamo che per certi versi è il nostro disco più “rock”, anche se tra accordature sghembe di chitarre e ruoli che si capovolgono in ogni momento anche questa volta non rimane ben chiaro quali suoni siano prodotti dalla chitarra e quali dai synth. Addirittura in alcuni casi i pezzi sono nati direttamente su improvvisazioni di Francesco (“Almagest”), che non è un processo di costruzione così canonico.
Francesca Marongiu: È sicuramente un disco in cui si è lottato parecchio contro forme e stili, in alcuni pezzi abbiamo tentato di piegare queste forme in modo che esprimessero le tante influenze che ritenevamo importanti. Così sono venute fuori composizioni massimaliste come “Stilbon” e “Oikoumene”, che fotografano un momento di passaggio precedente a quel recupero di essenzialità rappresentato invece da “Almagest”, “Atol” e “Fallen”. Al momento ci stiamo dirigendo proprio in quest’ultima direzione, spazio e materia sono i nostri interessi principali come Architeuthis Rex, mentre feticismi vari, ai quali pure siamo affezionati, li appaghiamo in altri progetti.
Domanda per Francesco Gregoretti. Come nasce la collaborazione con gli Architeuthis Rex e cosa pensi di avere apportato in questo album?
Francesco Gregoretti: Credo che Antonio mi abbia contattato per primo, forse per congratularsi della musica degli One Starving Day? Non ricordo di preciso… Quello che ricordo è che poi siamo rimasti in contatto ed ho aiutato lui e Francesca ad organizzare un concerto a Napoli. Successivamente ci siamo incontrati altre volte e abbiamo trascorso del tempo insieme, credo che loro abbiano avuto la possibilità di apprezzare la mia sensibilità artistica e umana.
Quando mi hanno chiesto di far parte degli Architeuthis Rex non ho avuto esitazioni perché considero l’affiatamento umano fondamentale per realizzare cose… magari belle.
Sicuramente ho apportato elementi di natura improvvisativa o comunque di pratiche non immediatamente riconducibili all’ambito musicale in cui ricadono gli Architeuthis Rex, che hanno forse spinto Antonio e Francesca a confrontarsi con un modo diverso di fare musica, spostando il tutto verso luoghi inesplorati. Così se leggo l’etichetta drone / experiment / metal / impro-hybrid (recensione sul blog tedesco Unruhr) significa che le mie sensazioni trovano conferma anche all’esterno (e quindi l’esperimento è riuscito?). Il risultato finale ha comunque un’organicità ed è qualcosa che evolve in maniera naturale da quello che erano gli Architeuthis Rex. Puoi continuare a riconoscere il marchio distintivo di Architeuthis Rex così come eventualmente puoi riconoscere un certo modo di interpretare la batteria: il risultato è omogeneo e ricco di spunti differenti.
Ora vi chiedo di fare un po’ il vostro “punto sulla situazione musicale” dell’underground di casa nostra. So bene che non vi interessa mettere dei “paletti geografici” a band e situazioni di un certo tipo, ma vi chiedo lo stesso come vi trovate in un contesto come quello che si vive da noi.
Francesca Marongiu: Alcuni dei dischi che ho ascoltato di più negli ultimi due anni sono, ti dirò, proprio di italiani: “Natura Morta” di Andrea Belfi, “Miseri Lares” di Valerio Tricoli e “Pondfire” di Paul Beauchamp (ormai italiano d’adozione, no?). Questo per dire che non penso che nascere e crescere in Italia sia la grave condanna di cui alcuni parlano. Penso solo che qui se riesci a combinare qualcosa di attuale e personale di solito lo devi esclusivamente a te stesso, non di certo all’ambientazione di contorno, almeno dal punto di vista musicale.
Antonio, quando e perché decidi di fare il musicista e come sviluppi la passione per la fase di mastering? Hai fatto studi specifici a tal proposito? E quali produttori apprezzi di più?
Antonio Gallucci: Sono attratto dalle cose fallimentari, quindi essendo indeciso su se morire di fame iscrivendomi a una scuola di giornalismo musicale o a una di tecnico del suono ho optato per la seconda. Dall’esperienza formativa “ufficiale” sono uscito con delle capacità di ascolto affinate, anche se probabilmente ero già naturalmente predisposto, e con le basi tecniche di partenza che mi sono state fornite ho cercato di colmare le lacune lasciate dal corso immergendomi nello studio dei processi fisici che poi sono alla base di un buon lavoro di mastering. Ho un approccio non molto ortodosso alla cosa in quanto pur cercando di non essere troppo invasivo, nel mio lavoro mi ritrovo per la maggior parte dei casi a svolgere sia la parte di “meccanico” che di “confessore”, con interminabili conversazioni coi miei “clienti” riguardo a come migliorare il missaggio di partenza, un aspetto che per assurdo la semplicità di programmi per l’home recording sta facendo diventare una specie di dinosauro in estinzione.
Francesca più volte mi ha invitato ad aprire un blog per audio-nerd (anche per ridurre queste conversazioni infinite e trovare magari il tempo di andare al cinema più spesso) in cui proporre piccole lezioni di tecniche audio o semplicemente come comprare un device nuovo leggendo la scheda tecnica e spendendo meno di quanto ti propinano marchi blasonati a prezzi superiori. Magari è uno dei progetti a cui metterò le mani quando le tecniche di clonazione umana saranno affinate.
Master engineers del “cuore” ne ho davvero molti e ti assicuro che i nomi che sto per farti non sono assolutamente quelli con un approccio più tecnico. In cima a tutti rimangono sempre la coppia Ward/Weston di Chicago Mastering Service, in quanto hanno plasmato decisamente un’era e il loro lavoro di tecnici si è praticamente trasformato in un marchio di fabbrica; per lo stesso motivo apprezzo anche Rashad Becker di Dubplates And Mastering e ritengo che sia tra i migliori in Europa. Anche se poi la mia visione estetica personale mi porta a farti il nome di Mell Dettmer, che ritengo una poetessa delle dinamiche e una visionaria. Tutto questo a confermarti che anche i “meccanici del suono” in fondo hanno un cuore e non i VU meter nel petto.
Una domanda per Francesca. Se non erro ti occupi dell’aspetto grafico dei dischi, come avete scelto invece la foto di copertina per Stilbon Is Dead?
Francesca Marongiu: Christopher Colville è uno dei miei fotografi preferiti. L’ho scoperto ai tempi in cui stavamo registrando Urania, ed ero totalmente immersa nell’universo Utech Records. Mi sono ritrovata ad avere a disposizione l’intero catalogo della label e tra le varie copertine, tutte curatissime, c’era quella di un disco di Daniel Menche, Terre Paroxysm, che mi ha immediatamente colpita, poiché vicina all’estetica che caratterizza quasi tutti i nostri progetti.
In seguito ho scoperto altri suoi lavori, come la serie Works Of Fire, realizzata scattando in notturna e aggiungendo della polvere da sparo sui negativi. Queste immagini sono diventate il punto di partenza per quelle della copertina di Stilbon Is Dead. Chris è una persona molto disponibile e affine a noi, ama la nostra musica, come anche i temi alchemici e sci-fi. Sicché è stato molto naturale collaborare insieme.
In questo disco c’è anche un’altra collaborazione importante, quella con Terence Hannum dei Locrian…
Francesca Marongiu: Terence è un amico e avevamo già collaborato insieme in diverse occasioni: un paio di anni fa avevo lavorato al video di “Return To Annihilation” dei Locrian, e proprio in quel periodo Antonio ha esordito come Kapustin Yar sulla tape label di Terence e André Foisy, la Land Of Decay. Perciò quando abbiamo ultimato “Almagest” ci è venuto quasi naturale pensare di aggiungere la sua voce. In più nel disco vi sono diversi riferimenti a J. G. Ballard e all’estetica nichilista post-capitalista. Insomma, sarebbe stato strano non coinvolgerlo, piuttosto che il contrario.
Che tipo di rapporti avete con la stampa, cartacea e web?
Francesca Marongiu: Ma, che dire, sicuramente in giro c’è un po’ di stanchezza e non sono l’unica ad avere poco tempo e magari nemmeno voglia di leggere le opinioni di chicchessia su qualsiasi cosa. Però ci sono pezzi d’opinione appassionanti e punti di vista originali qui e lì, quindi, tempo permettendo, qualche bel pezzo sui vari The Wire, The Quietus, Prismo, Sublime Frequencies e altri lo leggo. Per quanto riguarda la mia esperienza dall’altra parte, è stata senz’altro positiva. Sia Crisne che Agarttha hanno ricevuto una buona attenzione da parte della “stampa”, soprattutto fuori dall’Italia. È stata una bella soddisfazione essere contattata da Pitchfork per la rubrica di Marc Masters e Grayson Currin, The Outdoor, che tra l’altro ha da poco chiuso i battenti, purtroppo.
Antonio Gallucci: Di solito ci salutiamo quando ci incrociamo per strada, ma non sempre.
Mi dite come siete riusciti, ai tempi, ad avere la possibilità di pubblicare per Utech Records?
Antonio Gallucci: La risposta è molto semplice: avevo quattro pezzi molto “raw mix” postati sul mio MySpace di cui tre son poi andati a finire in versione rivisitata su Dark As The Sea e mr. Utech, ascoltando casualmente quelle prove, mi ha commissionato e finanziato la realizzazione del primo album, che ho praticamente finito di scrivere nei sei mesi successivi alla sua mail. Dal primo momento con Keith c’è stato un rapporto di amicizia e in qualche modo ha seguito tutto il processo di creazione con l’accesso a una cartella di condivisione file su Dropbox. Nel frattempo lui ha lavorato alla creazione del “vestito” proponendomi diverse soluzioni per la parte grafica sia della prima che della seconda tiratura di quel disco. Anche con l’ingresso di Francesca siamo rimasti in contatto (ancora lo siamo) e abbiamo scoperto la nostra comune passione per lo sci-fi, quindi dopo aver ascoltato due provini di “Spacemetal #1” e “Spacemetal #2” ci ha offerto tutto il supporto necessario per la produzione di Urania.
Francesca, raccontami dei tuoi progetti solisti. Ce ne saranno altri in futuro? So anche della tua passione per le orchestre di Gamelan e la cultura indonesiana. Qual è la molla che ti ha fatto avvicinare a tutto ciò?
Francesca Marongiu: In questo periodo sto lavorando al secondo disco di Agarttha e ci sto mettendo parecchio tempo, perché tra studio e lavoro non riesco a dedicarmi alla creatività come vorrei. Crisne è un progetto che ho iniziato nel 2011 quasi per gioco, e difatti il disco d’esordio, Albedo, è poi rimasto orfano, nel senso che, chiuso quel capitolo aperto diversi anni prima (alcuni pezzi del disco erano nati al pianoforte già dal 2009), ho iniziato a dedicarmi ad Agarttha. Recentemente ho ripreso a lavorare a materiale più elettronico, che forse pubblicherò come Crisne. È musica completamente diversa da quella di Albedo, sia perché io sono in continua trasformazione e la musica, bene o male, segue questo processo, sia perché studiando musica elettronica l’approccio cambia totalmente. Per quanto riguarda il Gamelan e la musica indonesiana ho iniziato ad avvicinarmici durante l’università. A quei tempi stavo seguendo un corso di Etnomusicologia e nel programma, oltre ai vari e apprezzati Alan Lomax, Diego Carpitella e a un bel capitolo sulle launeddas, c’era anche una parte dedicata alle musiche del Medio ed Estremo Oriente. Poi ascoltavo diversa musica contaminata con sonorità extra-occidentali (le Spires That In The Sunset Rise, musica tibetana, la library africana di Ben Vida o anche solo un disco come “My Life In The Bush Of Ghosts”, che per motivi di pigrizia è stato per mesi l’unico che avevo in macchina, eheh). L’anno scorso poi, mentre preparavo un’intervista a Jessika Kenney, mi sono resa conto che mi sarebbe piaciuto inserire nella mia musica quegli elementi. Quindi ora mi sto muovendo anche in questo senso, e spero che ciò che produrrò in futuro ne sarà influenzato in qualche modo.
Parlatemi di quello che più vi piace ascoltare di solito, e degli album che più avete consumato in passato.
Francesca Marongiu: Insieme abbiamo consumato un sacco di album che avevamo già consumato tanto da soli e molta è roba pop geniale che piace un po’ a tutti (tipo Todd Rundgren, i Beach Boys o i Talk Talk). Negli ultimi anni ho ascoltato tanto Iannis Xenakis, Harry Bertoia, Tōru Takemitsu, palesando la mia ossessione per i suoni metallici e percussivi, e il mio amore per l’architettura. Poi sicuramente il catalogo di Sige, la già citata Utech, Editions Mego e molte altre etichette. Per un lungo periodo ho ascoltato tanta library italiana degli anni Sessanta e Settanta, ma negli ultimi anni mi sono via via concentrata maggiormente sul suono in sé: Eliane Radigue, Sofia Gubaidulina, Maryanne Amacher e Pauline Oliveros sono diventate punti di riferimento molto importanti. Per quanto riguarda le voci invece sono da sempre appassionata al folk più arcano e tradizionale, soprattutto inglese. E mi piacciono cantanti poco conosciute con voci bellissime, come Carmeta Mansilla dei Can Am Des Puig, che purtroppo è da poco venuta a mancare.
Ultima domanda: cosa avete imparato dalla musica pubblicata sinora? Volete continuare su questa strada o magari cambiare stile, insomma misurarvi con musiche diverse?
Antonio Gallucci: Ascoltando la nostra discografia ti renderai conto che negli anni sono affiorate in maniera abbastanza distorta dalla fonte originale diverse influenze (inserti dub/tinteggiature etniche/psichedelia/musiche ripetitive e rallentate varie, etc. etc.), o meglio: chiamiamole riletture, visto che non sarei in grado di suonare correttamente nessuna delle cose citate. Mettiamola così: ci piace mettere in crisi gli ascoltatori e i giornalisti che cercano di fare qualche accostamento stilistico con cose del passato o attuali.