Tempo Reale Festival (“Aria”), serate del 21 e del 22 giugno
Firenze, Villa Strozzi.
“L’epoca delle grandi sinfonie è finita”, scriveva il poeta norvegese Rolf Jacobsen. Partiamo da questo luogo poetico per raccontare, a ritroso, due dei tre giorni di “Aria”, questo il titolo dato al Festival di Tempo Reale, il Centro di ricerca, produzione e didattica musicale fondato da Luciano Berio nel 1987. Trascorsi 34 anni, evidentemente non sono ancora state scoperte tutte le terre del Suono, quindi il viaggio continua. Lo Zum Trio, che chiude la seconda serata a Villa Strozzi, è uno stimolante prototipo di musica sulle macerie: radio, sintetizzatori (Francesco Giomi), chitarra elettrica (Francesco Canavese) e batteria (Stefano Rapicavoli) si muovono in un paesaggio tutto detriti e rumori, dando vita ad un ibrido free rock, un triangolo selvatico e scaleno che ha il proprio vertice nelle fiammate della sei corde. L’uso della radio crea benvenute interferenze da audioblob: non ci sono appigli in questa parete verticale scalata a mani nude. Il Novecento, l’avanguardia e l’elettricità sono una vertigine. Musica di un’apnea o una lunga teoria di frammenti che riporta a galla ansie riduzioniste, i frantumi (non) raccolti da Starfuckers, certe pagine del catalogo Ambiances Magnetiques, una versione metallica del Gruppo Di Improvvisazione Nuova Consonanza o dei Supersilent in fissa col kraut. Non tutto è sempre ben calibrato, talvolta la batteria si mangia gli altri strumenti mentre il dettaglio in questi casi è tutto, ma ci sono diversi momenti alti, dove si palesa l’empatia nel trio, che inesausto fruga, scandaglia, cerca a tentoni nel buio, trova, butta in discarica, sbanda, mentre assembla un terribile e meraviglioso totem al Grande Nulla che avanza. Prima di Zum Trio due set non a fuoco: Dario Fariello con sopranino, soprillo (un sax minuscolo) e laptop mostra, senza grande convinzione, un campionario delle possibilità timbriche degli strumenti annoiando rapidamente. Poche idee, ma confuse. Un poco meglio Vincenzo Scorza, con laptop e sintetizzatore modulare, senza mai allontanarsi però dai sentieri del noto e del prevedibile: bordoni, crepitare di falò digitali, un brulicare di forme di vita algide che riporta dritti a tanta, troppa elettronica già sentita, senza distinguersi.
Semplicemente straordinaria la serata di apertura con due live in solo: comincia Michele Rabbia con un minimo set percussivo espanso da un uso narrativo molto efficace dell’elettronica ed un’attenzione profonda e amorevole per ogni gesto sonoro. Campane di un Tibet ancora più lontano, una febbre sottile che cova come il respiro delle braci nella fucina di Efesto, incenso elettroacustico a spendere la sua fragranza in stanze di raga indiano, soffi, sassi, fuoco, lapilli, terra. Bastano un tom, due piatti, un archetto, un pettine per dare vita ad un imprenditore glitch della pietra, un rituale ctonio. Oppure un paio di sassi, due metronomi, a scandire il tempo per il tempo dell’apocalisse. Perennemente in bilico tra abissale e siderale, ispirato e capace di raccontare una storia con qualsiasi cosa tra le mani, Rabbia ci conduce in un Artico sperduto, abitato da creature familiari eppure immense, non abituate ad una luce che giunge come un miracolo una volta ogni mille anni. Tra ombre tedesche (il catalogo Mille Plateaux, i Rechenzentrum, un sentimento ambient gassoso e glaciale) il set si chiude in gloria techno e noi siamo una cosa sola con quel cuore umano, troppo umano e scompariamo con lui nel silenzio dopo la musica. Dalle percussioni in un set ambient alla chitarra in un set percussivo: Julien Desprez non fa prigionieri con un live devastato e devastatante in modalità kamikaze. Nevrosi giapponesi (la techno suonata dei Goat, le colate di furore fuso di Tetsuo) per una chitarra letteralmente inaudita. Tanto Rabbia è delicato, tanto Desprez è massimalista e spietato, ma c’è del lirismo in questo assalto all’arma bianca, in una botta di rumore senza compromessi. In realtà chi scrive scorge un disegno, un ordine, il seme del genio in questa teoria assassina di allarmi per attacchi alieni, segnali di un’umanità bombardata, appesa, sfinita. Una versione chitarristica degli Autechre declinata da uno scaldabagno modello hardcore, una giungla fitta fitta attraversata da un esploratore col machete affilato e potenti similanfetamine in corpo, un alfabeto composto da altre lettere capaci di dare vita ad altri suoni, altre parole. Una strana officina infernale e paradisiaca dove viene messo a punto l’esatto meccanismo di un perfetto, scintillante delirio, un tour de force costellato di fuochi d’artificio. Desprez fa suonare la chitarra come pochi, oggi, anche grazie all’uso molto inventivo dei pedali in funzione ritmica. Quando si dice suonare con i piedi.