TEHO TEARDO

Teho Teardo - foto di Andrea Boccalini

The New Noise non è una webzine di tuttologi. Abbiamo avuto la chance di intervistare Teho Teardo, che oggi suonerà a Roma con gli Wire, e l’abbiamo sfruttata: una figura così importante per la musica italiana, capace di sperimentare e di raggiungere la popolarità, era però in qualche modo nelle nostre corde. Il collegamento tra noi e Teho sta nell’industrial, genere che lui ha frequentato prima che il suo nome finisse – meritatamente – sui grandi giornali italiani. Questo maggio, per coincidenza, ha pure suonato al festival della Broken Flag, l’etichetta dei Ramleh dove sono apparsi – tra gli altri – Skullflower, Controlled Bleeding e tanti nomi “storici” italiani (Toniutti, Sigillum S, Mauthausen Orchestra, Maurizio Bianchi). Da questo punto di vista, l’unico possibile per noi, abbiamo provato a vedere che profilo di Teardo potesse uscire in controluce. Abbiamo quasi preso uno scoglio (“Diaz”), ma ciò che conta è che sia emerso il volto di un musicista indipendente, autonomo, che non si conforma (la risposta su Zeitkratzer) e che ha fatto da sé e senza guardarsi indietro, come molti che venti-trent’anni fa cominciarono dal punk o da Throbbing Gristle e soci. Una figura, cioè, che si è svincolata dalle classificazioni e ha camminato per i fatti suoi, coi pregi – ma anche coi difetti – che questo comporta. Non a caso, sta per far uscire un disco collaborativo con Blixa Bargeld, altro esponente del primo industrial che non è rimasto dentro una gabbia, con tutto che l’ha costruita pure lui.

Cominciamo dall’attualità. Com’è andata al festival Never Say When della Broken Flag? Hai rivisto amici? Sensazioni provate? 

Teho Teardo: Benissimo, davvero un’esperienza molto positiva. Ho incontrato per la prima volta persone con cui in passato ho fatto dei dischi… come Matthew Bower degli Skullflower. Ho rivisto Gary Mundy, poi Gordon Sharp dei Cindytalk, con cui prima o poi mi piacerebbe suonare. È stato bello rivedere come per qualcuno il tempo passi, mentre per altri sembra non sia assolutamente trascorso nel loro rimanere dentro i gorghi malsani della nostalgia. Dispiace vedere le nuove leve imbrigliate nel ricordo che poi si trasforma in un genere ben codificato, ma è un problema loro… Mi è piaciuto molto suonare lì ed ho ricevuto un’accoglienza molto positiva.

Vent’anni fa, senza nemmeno bisogno di accennare ai Meathead, hai condiviso dischi e collaborato con Ramleh, Nurse With Wound, Mick Harris. Industrial, partendo da Pordenone e dal punk. Com’era possibile dalla provincia italiana raggiungere gli inglesi? Tra l’altro ovunque gli appassionati conoscono Maurizio Bianchi, Pierpaolo Zoppo, Sigillum S, come è accaduto? Un tuo ricordo esplicativo, per favore.

Ho fatto quanto potevo per andare a Londra, incontrare coloro che facevano i dischi che in quel periodo apprezzavo e cercare di capire come realizzare un album. Le prime persone che ho conosciuto furono Steve Stapleton dei Nurse With Wound, Gary Mundy dei Ramleh e Marc Almond. Per me è stato chiaro sin da subito che da dove mi trovavo non sarei riuscito a capire di che si trattava, che avrei dovuto spostarmi e andare dove le cose stavano succedendo.

Sia tu (come si sa) sia Bernocchi (Sigillum S) lavorate per il cinema (tra l’altro avete in comune Salvatores). Brian Williams e Graeme Revell sono altri pionieri industrial passati alle soundtracks. C’è una predisposizione “genetica” secondo te? Cos’è rimasto di queste origini nella tua “cassetta degli attrezzi” attuale?

Quello che rimane è uno spirito decisamente “don’t look back”, anche perché per me industrial significa poco, ora come allora. Rimane un atteggiamento che attraversa ambiti diversi, in periodi lontani ma in cui alla fine deve prevalere la voglia di fare qualcosa che assomigli solo a me, che non citi nessuno nemmeno per contestualizzare il proprio percorso. Anche nei mille compromessi del cinema.

Conosci lo Zeitkratzer Ensemble? Che ne pensi di un’orchestra che suona i Whitehouse? E di Balanescu che in Possessed rifà i Kraftwerk? Il vostro è stato una specie di incontro a metà strada?

Sì, ho molti dischi loro. Ammetto che i Whitehouse mi annoiano. Se adesso l’aspetto destabilizzante dei Whitehouse è molto diminuito rispetto ad allora, proporre in questo momento dei rifacimenti di quei brani con strumenti tradizionali mi sembra un ulteriore passo indietro. Come riprodurre con il mosaico delle acqueforti senza rendersi conto che nel frattempo è stata inventata la fotografia. Ma ovviamente non è solo una questione di strumenti utilizzati. Le cover così realizzate mi sembrano soprattutto intrattenimento, anche quando hanno i contorni così apparentemente avanguardistici.

Nessun paragone con l’operazione che Balanescu fece con i Kraftwerk, in cui realizzò un vero e proprio spostamento dell’asse portante della scrittura robotica del gruppo in un contesto cameristico che nessuno poteva immaginare. Le versioni del Balanescu Quartet sembrano scritte da loro stessi e non più dal gruppo di Düsseldorf, una bella differenza direi… Balanescu si è impadronito di quella musica e ora sembra sua.

Veniamo a “Diaz”. Tutti hanno sottolineato l’utilizzo particolare degli archi di Balanescu: in certi frangenti sembra abbiate scelto un approccio più “rumoroso” e – ma non sono un tecnico – “non ortodosso” agli strumenti. Com’è nata l’idea? Come ne avete discusso? 

Il film respingeva qualsiasi avvicinamento melodico, un questione di dolore interno alla storia. Un male che annichiliva. Non una questione di violenza, ma proprio un tempo successivo allo scontro dove rimane il silenzio del dolore. Il silenzio lo si può misurare con il tempo, quindi con il ritmo. Sono partito dal ritmo per trovare una relazione drammaturgica con questo film, così il ritmo è stato costruito evitando le prevedibili fonti elettroniche, ma privilegiando i rumori dei componenti del Balanescu Quartet che grattavano le corde dei loro strumenti con le unghie.

Nonostante quanto ti ho appena chiesto, io credo che Vicari con le immagini abbia calcato molto di più la mano di te con la musica. Secondo me lui ha scelto un registro esplicito e consciamente provocatorio come quello di certi horror (e come quello di certo industrial primigenio), non solo nei pestaggi ma anche nel rappresentare le umiliazioni inferte alla protagonista (il “dottore”, il bagno). Tu come ti sei approcciato a queste due tipologie di scena? 

Non è un film horror e non ne contiene i codici. Non colgo nemmeno alcun aspetto provocatorio, ma solo un dolore interno che brucia per buona parte del film e che culmina nel silenzio finale. Quel silenzio lo considero uno dei brani del film, un vuoto che spinge a chiedersi se qualcosa del genere non può riproporsi. In entrambe le scene che citi non c’è volutamente musica.

È stupendo, perché ri-sentendo la tua colonna sonora da sola dopo aver visto il film, non riuscivo ad associare nessun brano a quelle scene, avevo presente solo quel “respingere qualsiasi avvicinamento melodico” di cui parli. Per questo ti ho detto che non mi pareva tu avessi calcato la mano. Perdonami, ma se tu nei momenti di violenza scegli il silenzio, come fai a dire che Vicari non provoca, dato che mostra, e molto a lungo, e non allude? La passione di Cristo non l’hanno raccontata tutti come Mel Gibson… Per inciso a me son piaciuti entrambi i film, mentre critici di sinistra han scritto che Vicari è stato crudele quanto quei poliziotti…

Daniele non provoca, ma propone un’immagine per qualcosa che fino a questo momento non è stato rappresentato.
Non amo affatto Mel Gibson per quello che rappresenta e non mi sento di aggiungere altro circa la sua figura ed i suoi film.
Questo film ha avuto degli attacchi da sinistra che avremmo dovuto aspettarci: proprio dalla tua stessa parte politica ti arrivano i segnali peggiori, è triste, ma vero. Ma bisogna guardare oltre.
Non è crudele Vicari, ma è crudele la realtà che ha raccontato con questo film. Quella è davvero spietata e questo film è stato fatto anche perché tutto ciò non si ripeta più. Parlandone, condividendo il dolore si spera che non si ripeta. Non c’è alcuna provocazione in questo, ma vedo solamente dei buoni propositi.

Che cosa ci puoi raccontare del tuo progetto con Blixa Bargeld? Così – Throbbing Gristle a parte – abbiamo citato quasi tutti i pionieri industrial. 

Sono appena rientrato da Berlino dove ho registrato alcuni brani dell’album che io e Blixa stiamo realizzando assieme e che uscirà a nostro nome il prossimo anno. Abbiamo già lavorato altre volte assieme in passato. Quando abbiamo scritto una canzone per una colonna sonora, Una Vita Tranquilla, lui mi ha proposto di realizzare un album intero proprio nella direzione del nostro brano “A Quiet Life” e così ci siamo messi all’opera. In realtà Blixa è legato ai TG in quanto ha cantato in quello che sarebbe dovuto essere il loro nuovo album.

Quali sono i tuoi obbiettivi con Specula? Ti piacerebbe produrre altri artisti?

Sì, ho diverse cose in cantiere, la prossima uscita sarà l’album che sto ultimando con Graham Lewis degli Wire, uscirà a fine anno e ne sono estremamente soddisfatto.

C’è stata un’età dell’oro per le colonne sonore italiane. Non solo Morricone, ma anche Micalizzi, Nora Orlandi, Donaggio e persino avanguardisti come Bruno Maderna. Ti senti influenzato da qualcuno di loro?

No. Morricone l’ho percepito più attraverso le rielaborazioni che ne fece parecchi anni fa John Zorn piuttosto che per i suoi pur geniali lavori nel cinema tra fine anni ‘60 e inizio ‘70. Indagine Su Un Cittadino Al Di Sopra Di Ogni Sospetto è un capolavoro assoluto.

I miei riferimenti musicali sono altri, altrimenti sarebbe quasi ridicolo scrivere colonne sonore e rifarsi a quei nomi…

Un’ultima inevitabile, banale curiosità. Hai contribuito a uno dei film italiani più importanti degli anni Zero e hai vinto un David di Donatello: ne hai tratto vantaggio in termini di visibilità e considerazione? 

La visibilità che alcuni film riescono ad ottenere è notevole, questo vale di conseguenza anche per la loro musica. Penso solo che la musica che ho scritto per il Divo di Paolo Sorrentino è finita in classifica! Un disco piuttosto sperimentale, cupo, non avrebbe avuto vita facile, soprattutto in Italia, ma questo dimostra che la gente non è tutta rimbambita dalle solite cose che stampa e tv diffondono e c’è anche chi cerca altro.