TASHI WADA, What Is Not Strange?
Una grafica quasi da autoproduzione di provincia per uno dei dischi più emozionanti dell’anno. Di Tashi Wada stanno parlando in molti e per una volta il brusio è ben giustificato. Il musicista californiano (ma di evidente ascendenza orientale) elabora un disco d’esordio tanto ambizioso (al limite del rompicapo in alcuni innesti stilistici) quanto intimo, perché composto in un arco temporale iniziato con la morte del padre e conclusosi con la nascita di una figlia. Una dicotomia di eventi familiari che ha senza dubbio influenzato testi e atmosfere.
L’inizio stralunato e ruvido della breve title-track lascia subito il campo alla vertiginosa “Grand Trine”, traccia che toglie ogni dubbio circa la voglia di sincretismo musicale dell’autore: influenze che si perdono nel free jazz, nell’acid folk e ancora più indietro nel tempo, fino ad arrivare al contrappunto barocco, in un Baccanale post-moderno di rara potenza emotiva. Se “Grand Trine” è la perla dell’intero album, traccia dopo traccia la qualità subisce ben pochi cali e la sfrenata creatività compositiva si riafferma nei continui stop & go organistici di “Asleep To The World”, in cui le prodezze vocali della vocalist Julia Holter (che supporta Wada anche alle tastiere) contribuiscono a rendere atemporale la tessitura armonica e melodica.
L’attacco da brividi di “Flame Of Perfect Form”, con le percussioni di Corey Fogel e il controcanto del basso synth, il dialogo idiosincratico tra le tastiere di Wada e la viola di Ezra Buchla in “Subaru” e gli otto minuti di “Time Of Birds”, estasi stellare kraut-prog con tanto di virtuosismo tastieristico finale, come nel più classico dei concept-albums d’annata. Sarà una mia impressione, ma credo che a Wada piacciano molto i vecchi, cigolanti e psichedelici organi elettromagnetici, con le loro stranezze, i comportamenti bizzarri e i difetti di intonazione sovente determinati anche da fattori esterni come temperatura e umidità.
Durante l’ascolto, in più frangenti ho pensato alle divagazioni free form di Robert Wyatt subito dopo la sua dipartita dai Soft Machine e il paragone – pur nel suo azzardo – non mi è sembrato poi così improbabile. Tashi Wada si diverte a mischiare di continuo le numerose influenze del suo ricco background musicale, mai però in modo del tutto prevedibile. A ciò aggiungiamo un gusto un po’ retrò nelle timbriche e nelle armonie, un ensemble di musicisti sui generis, il drumming inequivocabilmente di matrice jazz e le performance vocali (ad opera della sublime Holter, ricordiamolo) che non risparmiano brividi.
Per ultimo, Wada non antepone la sperimentazione al pathos: di emozione – anche quella più fisica e viscerale – questo disco è colmo, ne sono esempi eloquenti la lacerante “Plume” e la deliziosa “This World’s Beauty”.
Dunque, un disco perfetto? Fortunatamente i dischi sono sempre imperfetti esattamente come gli autori che li firmano e allora permettiamoci di annotare un’osservazione critica. Alcune tracce ambientali come “Reveiled Night” e “Under The Earth” sono lievemente sotto tono rispetto alle altre e paiono più degli intermezzi per consentire all’ascoltatore di tirare il fiato tra gli episodi stilisticamente più articolati e impegnativi. Non che non vi siano spunti degni di nota, ma la loro assenza non avrebbe intaccato l’economia del disco, rendendolo semmai ancora più devastante.
Ciò che rende What Is Not Strange? oggetto di interesse è la sua natura camaleontica, a tratti schizofrenica ma venata di nostalgica bellezza. È come osservare un album fotografico della nostra vita in cui tutti gli scatti sono disposti in modo casuale, senza rispettare alcun criterio temporale, e riuscire comunque a commuoversi per il frastuono dei ricordi.
Un disco straripante di sonorità old style ma reinventate con estro e perizia: se è vero che qualcosa di Wyatt si agita tra le tracce di What Is Not Strange?, allora è tempo che l’immaginazione ritorni al potere.