SWALLOW THE SUN, Shining
Nono album in studio per gli Swallow The Sun, quintetto finlandese che dal 2000 detta le regole del death-doom nordico senza restare ancorato a canoni rigidi, né scegliendo strade già battute da altri colleghi che hanno optato per un alleggerimento del sound. Questa è la mia premessa per Shining, uscito il 18 ottobre su Century Media: ha suscitato polemiche tra i puristi, ma merita di essere analizzato con attenzione.
Un cambio drastico si avverte nella scelta dei suoni, poiché la band si è avvalsa della collaborazione di un nuovo produttore, Dan Lancaster, che ha lavorato con nomi lontani dal metal come Muse e Blink 182. Se alcune scelte da lui fatte su Shining possono essere discutibili (una tra tutte: la batteria), per altri versi non posso che fare un passo indietro nel giudizio e approcciarmi a questo lavoro con apertura e curiosità. Gli Swallow The Sun non sono novellini né sprovveduti, e non devono spiegazioni al proprio pubblico. Loro stessi (nello specifico il bassista Matti Honkonen) definiscono Shining come “il Black Album del death-doom”, memori delle reazioni che il quinto album dei Metallica aveva suscitato. C’è dell’ironia di fondo o forse solo quella leggerezza finlandese nell’approcciarsi alle critiche negative, su cui indagherei volentieri in altra sede. Sta di fatto che Shining è un album divisivo. I primi tre singoli (“Innocence Was Long Forgotten”, “What I Have Become”, “MelancHoly”) compaiono nello stesso ordine sulla tracklist e dopo svariati ascolti continuo a considerarli il punto debole del disco. Posso anche affermare che riprendono alcuni aspetti già presenti nei due lavori precedenti, soprattutto “Innocence Was Long Forgotten”. Il videoclip che lo accompagna, firmato da Vesa Ranta (filmmaker e fotografo, ex batterista dei Sentenced, attivo oggi con The Abbey e Cemetery Skyline) fornisce elementi narrativi interessanti, e le metafore bibliche, molto care al chitarrista/compositore Juha Raivio, sono espresse con eleganza per raccontare sé stessi, la propria storia e la propria visione del mondo. Mi approccio a questo album criticato con apertura anche perché sono consapevole dell’onestà intellettuale di chi ci ha lavorato, e per quanto ciò possa essere visto come un bias cognitivo, me ne assumo la responsabilità.
Il ritornello di “What I Have Become” crea un forte contrasto non solo per il cantato pulito a fronte delle strofe in growl cavernoso di Mikko Kotamäki, ma anche per il pattern di batteria orecchiabile: è un brano che, bisogna ammetterlo, molti canticchieranno sotto la doccia, sorpresi di quanto un ritornello di un pezzo “metal” possa essere pervasivo.
Un gioco di parole spicca sul titolo della terza traccia, “MelancHoly”, che ammicca a sonorità familiari ai fan di vecchia data. Anche in questo caso suggerisco la visione del videoclip, di nuovo firmato da Vesa Ranta. La tematica non è nuova: la centralità della malinconia come compagna di vita e fonte di ispirazione è una certezza quando si parla degli Swallow The Sun, in barba a chi li vede “alleggeriti”, “ammorbiditi” o “pop”. Juha Raivio è un maestro nelle composizioni e nei testi, autentici e diretti, nati da quel fuoco interiore di cui parla spesso, vivo più che mai.
Rinnovare il proprio marchio di fabbrica sembra un ossimoro, ma è l’impresa che la band ha portato a termine: ne sono prova brani come “Kold” o “November Dust”, con quest’ultimo che risente delle esperienze musicali di Raivio al di fuori della band, nello specifico del progetto Hallatar, e del suo amore per i Type O Negative, condiviso anche col cantante, che a tratti ricorda Peter Steele. Ci piace, e personalmente non vedo l’ora di sentire questi pezzi dal vivo.
L’eterea “Tonight Pain Believes”, che potrebbe sembrare melensa, è l’apoteosi di un percorso lungo cui Raivio e soci si espongono nel renderci partecipi dell’altra faccia delle fasi del lutto: se i due album precedenti (When A Shadow Is Forced Into The Light e Moonflowers) vertevano su rabbia e depressione, con “Shining” si vede l’accettazione e la funzione terapeutica della musica, che diventa un ponte tra chi suona e chi ascolta.
A livello formale ci sono momenti più fiacchi e alcuni ritornelli forse eccessivamente ruffiani, ma in definitiva trovo Shining un album equilibrato, denso di tutte quelle sfumature malinconiche a cui gli Swallow The Sun ci hanno abituato. Invito gli indecisi e i delusi a riprovarci: potrebbe non essere il vostro album preferito, ma sarebbe un peccato perdersi la sua bellezza a causa di un pregiudizio o di un ascolto distratto.