SUPREME DICKS, 18/5/2013
Torino, NewClub99.
No, non è uno scherzo, questo attesissimo concerto s’è davvero tenuto in un nightclub di San Salvario, ed aggiungo pure che la location non era affatto male (troppo scontato ribadirlo, ma del resto il nome del gruppo ben s’adatta, no?). Dunque l’aria era “confidenziale”, il pubblico quello che ben conosce certa musica e gli stessi musicisti si aggiravano tranquilli e incuriositi tra i tavolini, le luci soffuse e i cocktail.
In apertura si gioca in casa con la chitarra “triste” di Davide Coccolo, il biondo terzo elemento degli HMWWAWCIAWCCW, che si cimenta in una mezzora abbondante di lento e riflessivo rock, tra deboli svisate à la Arab Strap e umore nero pece vicino all’apocalyptic folk. Si prosegue con l’elettronica fusa di Mai Mai Mai, one-man band del calabrese-romano Toni Cutrone, una roba aleatoria la sua, terminale, che verso la fine si riprende risultando piuttosto fascinosa (stranissimo e inquietante il costume indossato, tra l’altro…).
Altra breve pausa (ma è già tardissimo) ed eccomi al cospetto della storia, quella con la “s” minuscola verrebbe quasi da dire, nel senso che i Supreme Dicks, un po’ per scelta loro, un po’ per miopia di parte della critica, non vengono certamente annoverati tra i nomi più in vista del cosiddetto “alternative” americano che conta. Polemiche personali a parte, la loro è una musica affascinante e timida, che se ne sta volutamente appartata, per crescere senza fretta nei nostri ricordi. Aggiungo la totale assenza di pose da rockstar (bello vedere l’umanità di uno di loro che scattava foto nel locale come un turista qualsiasi). I quattro propongono un set lungo, all’apparenza “rilassato”: i pezzi sono fragilissimi, danno la sensazione che si stiano per sgretolare da un momento all’altro. Pensate ai Velvet Underground che si rinchiudono in una stanza e ne escono dopo ore di isolamento forzato ed avrete un’idea più circoscritta di una proposta comunque difficile da definire. Le loro canzoni sono bozze intimiste e senza speranza, l’esecuzione è chiaramente al limite del dilettantismo (o almeno un orecchio poco attento è legittimato a pensarlo). Questa insomma era ai tempi – ed è ancora, grazie a questa preziosa serata – la loro musica immortale, quella di cui c’è ancora bisogno oggi. Recuperate il fondamentale cofanetto per Jagjaguwar e immergetevi nelle loro delicate paturnie, sempre sottilmente inquiete e notturne.
Sì, è stato bello vedere che erano ancora vivi su un palco, ma ammetto che me li sono goduti meglio da solo, in cuffia nel traffico cittadino, piacevolmente perso nel loro piccolo ed esclusivo mondo fatto di poetico “autismo sonoro”. Grazie di esistere, cazzi supremi.