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SUNNK, Weaving Ritual

Nel suo studio sulla filosofia occulta contenuto in Tra le ceneri di questo pianeta, Eugene Thacker tratteggia alcune delle caratteristiche che definiscono un cerchio magico. Il cerchio delinea visivamente una sorta di confine tra il mondo naturale e soprannaturale e allo stesso tempo si pone come punto di passaggio, portale, per un altrove. In quanto strumento di mediazione tra dimensioni differenti esso ingenera, almeno nelle intenzioni di chi lo disegna, una minima aspettativa di controllo: ciò che viene mostrato, ciò che viene evocato, dipende da quel territorio che è stato volutamente tracciato e, in quanto tale, garantisce una stabilità del processo in corso. Che il cerchio funzioni come abitazione nella quale poter scorgere delle dimensioni sovrannaturali lo distingue da altre modalità, meno accomodanti e più traumatiche, di invasione di fenomeni occulti. Non fa eccezione il lavoro di Sunnk, Weaving Ritual, la cui composizione musicale funziona, a tutti gli effetti, come un cerchio magico. Come è stato scritto dalla stessa Mille Plateaux, Weaving Ritual non solo è uno dei primi album di Hyperglitch, ma è stato una della principiali ispirazioni per la creazione di questa serie. Riprendendo la descrizione fornita a proposito dell’album Reason di Seskamol, lavoro inaugurale della serie, «l’Hyperglitch è un genere emergente che si basa sul glitch, l’IDM e la musica sperimentale che l’hanno preceduto, ma si distingue da essi. Impiega nuove tecniche, esplora nuovi concetti, e presenta una nuova estetica. “Hyper”, in questo senso, non significa “di più”, o più veloce, più rumoroso, ma deve essere inteso nello stesso modo di “ipertesto”, ovvero profondo e maggiormente interconnesso. L’hyperglitch è l’evoluzione del glitch. È ciò che avviene quando una generazione di artisti radicata nel mondo digitale cresce circondata dal glitch. La loro fluidità nello lo sfruttare/impiegare il glitch ha radici profonde ed è molto più naturale, sfumata, rispetto a chi è nato al di fuori di questo ambiente» (trad. it. nostra). In effetti Weaving Ritual, con i suoi glitch che si condensano in forme compatte, sembra non avere un vero e proprio inizio, come se le onde sonore che ci travolgono già a partire dai primi trenta secondi ci precedessero e ci colpissero alle spalle. I pezzi successivi fomentano questa sensazione, continuando ad aggiungere elementi che si inseriscono nel piano compositivo che fin dalla prima traccia sembra già costituito nella sua interezza. Non si tratta, dunque, di un lavoro che procede in modo lineare, nel quale è possibile trovare uno sviluppo musicale. Al contrario, l’operazione di Sunnk inizia a metà presentandosi subito nella sua interezza. L’aggiungersi di nuove sonorità funziona più per attrazione, per aggiunta, che non per composizione. Le frecce sonore caotiche che caratterizzano la terza traccia – che riprende il nome dell’album – confermano questa suggestione, presentandosi come delle entità acustiche penetrate all’interno del confine ritualistico, aggiungendosi agli altri abitanti. Traccia dopo traccia, Sunnk porta dentro sempre più elementi, proseguendo senza esitazioni nell’esplorazione di un mondo sonoro occulto. La fortezza musicale che prende forma alla fine dell’ultimo pezzo, intitolata, non a caso, “The Sole Night”, si presenta a tutti gli effetti come quello che si potrebbe definire un hyperglitch: un patchwork, un agglomerato di glitch eterogenei la cui estensione temporale e spaziale non permette di definire un inizio e una fine, ma lascia come unica soluzione un continuo riascolto.