SUNN O))) + THE SECRET, 26/1/2020
Trezzo sull’Adda, Live Music Club. Foto di Francesca De Franceschi Manzoni.
Riascoltare Earth 2 prima di affrontare un concerto dei Sunn O))) può tornare utile per capire che nel 1992 Mr. Dylan Carlson aveva già detto molto, o forse tutto. Nonostante le successive evoluzioni di dischi, come ad esempio Lysol dei Melvins, l’avvento del grunge non aveva permesso lo sviluppo di quello che poi sarebbe diventato il cosiddetto “Drone”: tanti gruppi, in vari modi e con mille differenti sfaccettature e stili, avevano portato avanti un discorso di “lentezza e pesantezza”, ma solo dopo un decennio sarebbero apparsi loro, i Sunn O))), partiti proprio come cover band degli Earth, in seguito “evolutisi” in maestri del Drone, volendo trovare una definizione. Ma sono solo categorie, una delle cose più odiose al mondo. Di sicuro, l’errore più grossolano quando si va a vedere (se si riesce, data la quantità di fumo…) i Sunn O))) è quello di pensare di andare a un concerto. Quella che ci si deve aspettare è piuttosto un’esperienza, non musica da ascoltare, perché altrimenti ci si può comprare una levigatrice orbitale e passarla su di una lastra di metallo in mezzo a un allevamento di mucche muggenti per avere più o meno le stesse sonorità.
Arrivati al locale con un piccolo anticipo, ci prepariamo a quello che per me è il gruppo della serata: The Secret. Puntualissimi, si presentano sul palco con una formazione nuova: sono in cinque, con due chitarre. Il live mi convince molto, peccato solo che, come sempre, la gente arrivi alla fine e che il volume sembri provenire quasi solo dal palco, come se l’impianto fosse spento o davvero basso, con conseguenti “impiastricciamento” e confusione sonora. È bello vedere in prima fila Greg Anderson che scuote la testa sui loro pezzi. Ed è ancora più bello sapere che ci sono band nostrane che si mangiano tante, tante altre inutili formazioni estere osannate dai più. Il concerto è intenso, ascoltiamo estratti da tutti gli album e, dopo 50 minuti circa di pura violenza, classe e bravura, i The Secret salutano il pubblico col pugno al cielo e lasciano il palco agli headliner.
Il locale comincia lentamente a riempirsi di gente e, al tempo stesso, di fumo. Sembra di essere a Pavia, in autostrada… Salgo sulle balconate e mi immergo nella nebbia. Rossa, verde, gialla. Se Sirchia fosse ancora vivo, tra l’altro, qui morirebbe di crepacuore. Le prime pennate di chitarra iniziano a far tremare il locale (qualcuno deve aver acceso l’impianto) e, tra sbuffi continui di fumo che creano nuvole fantozziane che si posano sul pubblico delle prime file e riff lenti e monotoni, ci si perde in una sensazione di tedio e nello sbrodolamento sonoro. Sul palco – tra montagne di casse e amplificatori, sintetizzatori e tromboni – sono in cinque, tutti incappucciati, una sorta di confraternita di jedi sonori o forse, più semplicemente, frati dalle scarpe grosse. Le pennate si susseguono senza mai dare spazio a nulla per circa un’ora. L’oscillatore del Moog Taurus crea la vibrazione di fondo che non riesce a trovare la nota marrone per i volumi non altissimi che ormai, per legge, impediscono di potersi cagare addosso. Ma queste, ovviamente, sono banali considerazioni. Finalmente, dopo 60 minuti, accade qualcosa: il suono si spegne lentamente, le chitarre tacciono e Steve Moore imbraccia il trombone abbandonando una delle due postazioni coi synth. E tutto cambia: le luci, il fumo, l’atmosfera. È un momento diverso e, se vogliamo, magico. È come se, durante un concerto degli AC/DC, dopo un’ora di pezzi tutti uguali, entrasse il sassofonista degli Wham per fare l’assolo di “Careless Whisper”. Qualcosa che non ti aspetti ma in cui speri sin dall’inizio, perché la noia ti ha ormai eroso i coglioni. Insomma, un momento catartico. Poi, lentamente, tutto torna come prima, chitarre gravi, basse frequenze e drone come se non ci fosse un domani. La band finisce, ringrazia e saluta, e noi pure, fuggendo lontani nella nebbia vera dell’autostrada. E quando si dirada, non ti resta che pensare che hai comunque vissuto una bella esperienza e soprattutto quanto fosse avanti Dylan Carlson.