Sul pianeta Martina Bertoni
Martina Bertoni è una violoncellista aumentata. Di lei, nata in Italia ma stabilitasi a Berlino, ha già parlato una delle migliori firme di The New Noise, Elena Raugei. Il disco quella volta era Music For Empty Flats, uscito per Karlrecords nel 2021, un nuovo passo in avanti per un’artista con una storia composita e lunga, fatta anche di collaborazioni e lavori su commissione. Quest’anno, di nuovo per Karlrecords, che evidentemente non se la lascia scappare, ha pubblicato Hypnagogia, un album in parte propiziato dalla lettura del classico fantascientifico “Solaris” di Lem, lo stesso che poi ha ispirato due film, quello celeberrimo di Tarkovskij e quello – meno amato – di Soderbergh. All’inizio, ascoltando il suono del violoncello smaterializzato da laptop ed effetti, non è difficile immaginare di trovarsi nella capsula del dr. Kelvin in viaggio verso il pianeta dall’oceano vivente. Anche il trattamento che Bertoni fa di un suo vocalizzo è meraviglioso e commovente, e sembra emulare lo stupore dell’uomo di fronte a un’entità aliena che non può davvero comprendere. Proseguendo, il disco si disancora da qualunque riferimento e comincia a suonare indefinibile, come suggerisce il suo titolo, che si riferisce a una condizione, la nostra, che non è né di coscienza né di incoscienza. Karlrecords, pragmaticamente, descrive il sound di Bertoni come un mix tra quello di Hildur Guðnadóttir, Giulio Aldinucci e Lawrence English. Io, più volte, mi sono ricordato dei dischi di Tim Hecker che preferisco, An Imaginary Country, Ravedeath, 1972 e Fantasma Parastasie (collaborazione con Aidan Baker), primo perché Hecker è un pensiero spontaneo quando si parla di artisti che trasfigurano digitalmente il suono di strumenti legati più alla musica classica e da camera, secondo perché c’è qualcosa di shoegaze in entrambi. Al di là dei raffronti, inevitabili per noi webzinari, che altro non siamo che l’amico che prova a farti sentire qualcosa di nuovo e ogni tanto indovina, con Hypnagogia Martina Bertoni si ri-conferma musicista dal grandissimo potere sulla mia immaginazione e sulle mie emozioni. All’epoca di Music For Empty Flats avevo lasciato volentieri spazio a quelli bravi, questa volta invece ho deciso che dovevo intervistarla.
Una frase che i musicisti mi dicono spesso è che ciascuno conosce il proprio strumento a modo suo. La sento dire in un contesto come il mio, popolato da autodidatti che portano alle estreme conseguenze certi suoni. Per te com’è la cosa? Hai conosciuto il tuo strumento in modo tradizionale e poi hai cominciato a guardarlo con occhi diversi?
Martina Bertoni: Ho iniziato a suonare il violoncello da molto piccola, poi ho seguito il percorso accademico classico in Conservatorio. Quando ho iniziato il liceo è arrivato l’incontro con qualcosa di diverso: erano i primissimi anni Novanta, con il corollario di ciò che stava accadendo nella cultura popolare ed underground. Vivevo in provincia, dove arrivavano solo echi un po’ attutiti ed era difficilissimo avere accesso alle cose. Però mi sentivo curiosa e cercavo di mettere le mani, gli occhi e le orecchie su tutto quello che di underground mi poteva interessare, di cui leggevo e sentivo dire. Sentivo che oltre le pratiche che sembravano essere il mio unico destino da violoncellista c’era un universo. Quindi è iniziata una ricerca continua, piuttosto lunga, fatta di viaggi, incontri e di parecchi scontri, con voglia costante di mettermi alla prova. Ho sempre sentito la potenza ed il potenziale del mio strumento come assoluti e senza limiti.
Ci dici che “Solaris” è uno dei punti di partenza di Hypnagogia. “Solaris”, volendo, è la storia di un viaggio nello “spazio esteriore”, ma il protagonista e i comprimari finiscono soprattutto per esplorare il loro “spazio interiore”. Cos’hai capito di te stessa quando hai concluso Hypnagogia?
Ho scritto Hypnagogia immaginando come potesse suonare un paesaggio interstellare… quando per caso ho riletto “Solaris” durante le registrazioni, la narrazione di un viaggio che perde i contorni della realtà per sciogliersi in una dimensione subconscia mi è sembrata perfetta. Per rispondere alla domanda, a disco concluso su di me non ho avuto grosse rivelazioni, solo la conferma che adoro passare ore nel mio studio e che mi sento totalmente a mio agio dove sono.
“Stato ipnagogico” rimanda a una situazione in cui la nostra parte razionale è fuori uso del tutto o in parte. Domanda da un milione di Euro: che ruolo ha il subconscio quando crei? Ho intervistato tanti musicisti: per pochi la musica è solo matematica, qualcuno mi ha detto addirittura che è un’entità che gli dà ordini.
Per fortuna non ho assolutamente idea di che cosa faccia il mio subconscio mentre creo! Mi piace immaginare, e mi piace l’idea che l’impossibile e l’immaginario possano diventare in qualche modo reali. Ho la fortuna di poter provare a dare vita a queste idee tramite la musica, il che è già tantissimo. Poi, per esempio, suonare il violoncello per me è un esercizio tra corpo e geometria del suono che resta impagabile.
Secondo te, come va ascoltato Hypnagogia? Bisogna tenere volumi improponibili per sentirsi spostare da queste masse di suono che muovi?
Non è necessario, ognuno è libero di ascoltare Hypnagogia come meglio crede. A me piace ascoltarlo in cuffia. Però davvero, non ci sono istruzioni!
Una volta compravamo un disco anche solo colpiti da una copertina. Mi piace molto come scegli le tue. Le masse scontornate di colore della copertina di Hypnagogia mi dicono molto su ciò che andrò poi ad ascoltare. Come l’hai scelta e perché?
Grazie mille! La copertina è un dipinto di un artista ed amico, Ted Berglund. Un giorno accompagnai mio marito a visitare lo studio di Ted. Appena entrati, di fronte all’ingresso c’era questa magnifica tela gigantesca e qualcosa scattò immediatamente. Era la copertina perfetta. Chiesi a Ted se fosse d’accordo a prestare il quadro all’album. La tela era già venduta quindi in tutta fretta mi scattò delle foto che mi permise di usare, prima che il quadro venisse ritirato dal compratore. Gli sono eternamente grata per aver creato l’immagine perfetta di Hypnagogia.
Domanda “di servizio”. Ho spesso a che fare con Karlrecords. Grazie a un loro disco ho anche intervistato Mick Harris, uno dei miei punti fermi. Di loro, però, conosco solo il catalogo, non so chi sono, come lavorano… Com’è nata la tua relazione con Karlrecords?
Thomas Herbst mi contattò dopo aver ascoltato il mio primo album (All The Ghosts Are Gone). Gli era piaciuto tantissimo e mi voleva conoscere. Ci incontrammo per un caffè e due chiacchiere. Da lì l’offerta di pubblicare quello che di lì a poco sarebbe diventato Music for Empty Flats. Non ci volevo credere. Ancora oggi non mi bastano le parole per descrivere la gratitudine per il sostegno di qualcuno che apprezza così tanto e supporta il mio lavoro come Karlrecords e l’onore di avere i miei album accolti in un catalogo così.
Mi sono innamorato abbastanza presto di Tim Hecker. Il primo suo disco di cui ho scritto è An Imaginary Country del 2009. Lui è per te un’ispirazione o senti che certi suoi dischi sono vicini al tuo lavoro? Credo che anche l’idea di “un paese immaginario” ti piaccia…
Tra i miei dischi preferiti c’è Ravedeath, 1972 e il lavoro di Tim Hecker mi ha sempre colpito per la sua dimensione, per la potenza descrittiva e suggestiva. Consciamente non mi ispiro a lui né a nessun altro quando scrivo, però mi fa piacere che la mia musica possa suggerire in chi ascolta anche solo l’ipotesi di una vicinanza.
Tornerai in Italia a suonare il tuo materiale? È dura per te gestire laptop, violoncello ed effetti in un contesto live? Stai pensando a una componente visiva per gli show?
Per ora non ho ancora nessuna data in previsione per l’Italia, sarei molto felice se capitasse. Gestire un live è impegnativo, però sono molto soddisfatta del mio set-up attuale. Dopo parecchia di ricerca sono riuscita ad elaborare un workflow efficiente in una dimensione per me ideale, che mi permette finalmente di godermi le performance senza essere divorata dallo stress. Per ciò che riguarda la parte visiva, ho sempre pensato che sarebbe magnifico avere la possibilità di lavorare con un artista visivo per i live. È ancora il pezzo che manca… Sono alla ricerca dell’incontro giusto.