Streghe boreali: O-Janà [col video ancora inedito di “The Crescent Moon Bear”]
Il disco del duo O-Janà, uscito poco meno di un anno fa, ci ha fatto drizzare le orecchie: in perfetto e magnetico equilibrio tra mood da Grande Nord (la pianista Alessandra Bossa, anche all’elettronica e al Rhodes, ha vissuto a lungo in Lapponia) e tuffi a occhi chiusi nell’oceano del suono, conservando però la capacità di scrivere pezzi espansi e accessibili (la vocalità multiforme di Ludovica Manzo trova qui campo aperto), in bilico tra tentazioni avant ed afflato pop. Se la cantante è, tra le altre cose, presente nel nuovo disco degli ottimi ACRE, in uscita su AUT Records, la Bossa ha invece ad esempio suonato con Francesco Massaro, uno tra i musicisti più interessanti della scena creativa italiana. Forte di collaborazioni di grande prestigio (Michele Rabbia ed Eivind Aarset), Inland Images è un disco che inventa mondi, abitato da una libertà che sa del miglior jazz, denso di un fascino imprendibile, capace di stregare. Era necessario approfondire con qualche domanda per carpire i segreti di queste affascinanti eresie.
O-Janà, da Janara, strega: perché?
Alessandra: Avendo entrambe origini campane ci piaceva l’idea di evocare un mondo antico, un po’ magico, che appartenesse alle credenze popolari e nello specifico a quelle della tradizione del Sud Italia. Il termine Janara è saltato fuori quasi subito. Abbiamo poi giocato con questa parola facendola diventare tronca e dandole un’accezione maschile aggiungendo l’articolo determinativo “il” e traducendolo in napoletano con “O” per l’appunto. Anche nel pronunciarlo bisogna un po’ pensare al dialetto napoletano.
Orgogliosa degli accidenti, delle cadute: è un percorso difficile quello di chi vuole tentare sentieri inesplorati nella musica in Italia?
Ludovica: Sì, lo è. Nello specifico non so se il nostro sia un sentiero del tutto inesplorato ma probabilmente poco esplorato, sì. Personalmente ascolto da sempre molta musica internazionale, strumentale o vocale, spesso in lingua inglese, per una naturale attrazione. In Italia siamo di tendenza piuttosto conservatori, anche se i tempi sono cambiati ormai da parecchio. Mi sembra che anche nel cosiddetto mondo del jazz, negli ultimi anni, ci sia una maggiore apertura a traiettorie variegate, non necessariamente legate alla tradizione afroamericana o europea degli anni Settanta. Credo che le nuove generazioni siano interessate ad indagare altre musiche come l’elettronica o tutto quel mondo che ruota intorno al pop/rock alternativo e di ricerca.
Alessandra: Non penso quasi mai se il sentiero che seguo sia esplorato o meno e neanche che possa essere difficile. È così come viene e non potrebbe essere altrimenti. Cerco quanto più possibile di non farmi suggestionare dagli incasellamenti di genere semplicemente perché non mi piacciono e li trovo limitanti. L’Italia è più recettiva rispetto a qualche anno fa quando, O-Janà sarebbe stato un progetto un po’ troppo trasversale per i festival e le programmazioni in generale.
Come nascono i vostri pezzi? Improvvisazione, struttura? Quali le fonti a cui vi abbeverate? In alcuni frangenti ho pensato ad una versione meno cruda di Wildbirds & Peacedrums: li conoscete? Vi piacciono?
Ludovica: Sì mi piacciono, ho comprato un loro disco a Stoccolma un paio di anni fa. Trovo Mariam Wallentin una cantautice sensibile, anche nel suo progetto solista e in Fire! Orchestra. Mi piacciono molto i suoi video. Per rimanere in quella scena, devo dire che mi interessa in particolare il lavoro vocale dell’altra cantante della Fire, Sofia Jernberg. Una delle voci più incredibili di oggi, infatti sta avendo il successo che merita.
I nostri brani nascono perlopiù da improvvisazioni che poi vengono strutturate e su cui vengono imposte delle forme più stabilite, in pochi casi invece sono brani scritti da principio, che comunque vengono manipolati in vario modo. Devo dire che il nostro repertorio subisce di frequente trasformazioni anche se è costituito dagli stessi brani. Spesso cambiamo strumentazione, ci capita di fare concerti per voce ed elettronica, che sono pensati in altro modo rispetto a quelli elettroacustici, dove c’è la presenza del pianoforte. Per forza di cose anche la forma della musica cambia quando cambiano gli strumenti in gioco. Cerchiamo anche di rivedere spesso la scaletta per trovarci sempre in situazioni in cui possiamo essere molto attente a ciò che accade nel presente e non andare in automatico. Anche quando la scaletta è definita, prima del concerto ci diciamo sempre che in qualsiasi momento, se ne abbiamo voglia, possiamo andare altrove.
Alessandra: A volte i brani nascono da testi, qualche accordo o anche solo da alcuni suoni che ho processato, ma che già delineano una finestra all’interno della quale improvvisare. Da lì si parte per sviluppare, tagliare, aggiungere e cercare suggestioni. Questa fase può essere molto breve e avere una sua spontaneità così come essere rimandata più volte. Complesso è trovare soluzioni nuove che soddisfino entrambe e che non siano scontate. Il mio modo di comporre, poi, è cambiato da quando l’utilizzo dell’elettronica è diventato sempre più strutturale e continua a evolversi rendendo il campo d’azione sempre più ricco di elementi a cui devo pensare. A volte è difficile trovare quell’equilibrio tra il pianoforte e l’elettronica che possa portare l’ascoltatore a pensare che quasi è uno strumento solo… devo dire che però è anche la parte in cui più mi diverto. È come se nello stesso istante dovessi pensare a più strumenti, frequenze e timbriche differenti e iniziare da subito a missarle. E poi su tutto deve essere innestato il suono della voce di Ludovica, che cambia molto a seconda degli effetti e dell’equalizzazione che decidiamo di usare. Insomma c’è tanto da strutturare ma una volta finito ci concediamo la libertà di giocare come più ci piace. Conosco i Wildbirds & Peacedrums che sono abbastanza famosi soprattutto in Svezia. Li trovo freschi, spontanei e interessanti anche visivamente durante i live.
Da qualche parte, in un posto accogliente e immaginario, al crocicchio tra panorami ambient, modalità operative jazz, colonne sonore, Björk, la classica contemporanea: come avete creato questa miscela così peculiare, avant eppure assolutamente palatabile?
Ludovica: Difficile dirlo. A me piacciono allo stesso modo le musiche più contorte e stranianti e quelle più semplici e cantabili. Credo di non voler rinunciare a nessuna delle due, quindi forse semplicemente, senza porci limite alcuno, facciamo tutto quello che ci piace e ci viene voglia di fare.
Alessandra: Bella domanda! Penso semplicemente di avere un’attitudine fortemente intuitiva che mi porta alla ricezione del mondo in un modo che non ha nessun filo logico né segue processi standard o definiti. Ci ho provato in realtà a seguire un’unica strada in ambito creativo e mi sforzavo anche di definirla ma non funzionava… o meglio quello che ne veniva fuori era la brutta copia di qualcos’altro. Ho dovuto molto lottare con la disciplina ricevuta dallo studio della musica classica, che imponeva un’enorme pulizia e perfezione e caricava qualsiasi cosa facessi di una responsabilità per me eccessiva. L’unica soluzione quindi è stata partire proprio da quel luogo accogliente e immaginario che si nutre di vita di tutti i giorni, suoni concreti, film, persone conosciute, background musicali e molto altro, lasciando che sia quello che mi piace a venire fuori e non quello che è giusto che venga fuori. Per quanto riguarda il palatabile la verità è che esiste, posso dire in entrambe, quel grande e spudorato amore per la melodia alla maniera classica di cui non possiamo fare a meno e che cerchiamo di intrecciare al nostro mondo sonoro destrutturato e imprevedibile.
Alessandra, hai vissuto diverso tempo in Lapponia, ci vuoi raccontare qualcosa di quei posti, di quella esperienza? C’è un che di boreale in questo disco, dipende anche dagli anni passati lì? Come avete proceduto nel mentre, scambiandovi file?
Alessandra: L’esperienza svedese mi ha aiutata a conoscermi e quella al di sopra del Circolo Polare ha ridotto tutto all’essenziale. Lì il tempo scorre in un attimo a differenza di come si possa immaginare. La lunga estate e il lungo inverno scandiscono tutto e il ritmo interno cambia. I paesaggi forti ti impongono la presa di coscienza di quel momento, di quell’istante. Sei fortemente esposto al qui ed ora. In quel silenzio tutti i suoni sembra vengano assorbiti e rimandati indietro integri e puliti. A sé stanti. Le aurore boreali poi possono essere uno spettacolo sconvolgente soprattutto se l’attività solare è alta. Ti accorgi di quanto il cielo sia profondo. È un luogo quello dai forti contrasti e influisce non solo sulla musica ma in tutto quello che fai. Con Ludovica continuamente ci siamo scambiate file e nel periodo in cui vivevo a Göteborg qualche volta le prove le abbiamo fatte anche tramite Skype. Comunque approfittavamo dei miei ritiri italiani per vederci e sperimentare dal vivo.
Quali sono i vostri background, i progetti che avete in piedi ed in cantiere, collaborazioni che vi piacerebbe imbastire in futuro?
Ludovica: Ho da sempre cantato in progetti di musica originale, dal jazz alla musica elettronica e improvvisata. Quest’ultimo anno è stato pieno di collaborazioni. Ad ottobre uscirà per Aut Record un disco a cui tengo molto che si chiama Different Constellation, in cui sono insieme al bellissimo trio di musica elettroacustica Acre. Ermanno Baron, Marco “Ubik” Bonini e Gino Maria Boschi sono tre musicisti pazzeschi, con ognuno di loro ho condiviso nell’arco degli ultimi 10 anni (con qualcuno quasi 20 in realtà!) un percorso musicale e umano per me ricco di avventure e trasformazioni. Ho avuto altri bellissimi incontri, tra cui il progetto Moths di Dario Miranda e il trio She’s Analog in cui ognuno dei tre musicisti, Stefano Calderano, Luca Sguera e Giovanni Iacovella, ha scritto un brano pensato per la voce. Ho fatto un mini tour con il quartetto Libra, insieme a Baron, Marco Colonna e Flavio Zanuttini, di cui probabilmente uscirà una registrazione del live. Poi c’è il mio solo Serpentine, che spesso mi capita di portar dal vivo. In futuro mi piacerebbe pensare a un ensemble di archi, è un mondo che mi affascina molto e che conosco ancora poco.
Alessandra: Vengo dalla musica classica passando successivamente per l’improvvisazione che ho sperimentato soprattutto nel periodo passato a Göteborg, frequentando l’Academy of Music and Drama con Anders Jormin. Successivamente ho vissuto qualche anno a Torino e lì insieme ad altri musicisti portavamo avanti un collettivo, il GreenBrötz, con cui si suonava e si organizzavano concerti. Sono passati da noi Gianni Le Noci, Eugenio Colombo, Gino Robair, Michele Rabbia ed altri. Collaboro con collettivi di danza e ho un progetto in solo dove suono solo l’elettronica. Per le collaborazioni future farò un disco con Jan Bang, anche se lui ancora non lo sa…
Ditemi ciascuna tre dischi per voi imprescindibili.
Ludovica: Non so scegliere solo 3 dischi. Posso dirti tre cose per me imprescindibili e che trovo in artisti molto diversi: il timing o il passo con cui i suoni scorrono nel tempo, quello che fluttua e si sposta e che non può essere contato ma solo idealmente danzato; l’essenzialità, intesa non solo come sinteticità, che apprezzo molto, ma come espressione di un senso di necessità; la libertà di osare, là dove non sempre è concesso.
Alessandra: Impossibile sceglierne tre imprescindibili. Vado di getto scegliendo tra quelli che da quando li ho ascoltati non c’è stata una volta in cui non mi abbiano emozionato e sono:
Lucio Dalla – Dalla (1980)
David Sylvian – Manafon
Paul Bley – Play Blue
Il lavoro di Björk, vi interessa, lo seguite? Sarebbe interessante se il vostro disco riuscisse ad arrivare alle sue orecchie, credo che potrebbe apprezzarlo non poco.
Ludovica: Io l’ho ascoltata molto fino a Medulla, disco fantastico. Poi l’ho un po’ abbandonata ma è stato comunque un grande amore. Ecco, lei è un’artista che ha tutti e tre gli elementi di cui parlavo prima. Ad esempio il suo modo di stare sul tempo e di portare il testo è davvero particolare, sembra molto più regolare di quello che invece è se provi a cantare insieme a lei. Ah sì, sarebbe bello le arrivasse, se qualche lettore ha il suo numero, ci faccia sapere!
Alessandra: Björk ha uno sguardo sul mondo sempre avanti di qualche decennio. Gli ultimi lavori hanno una potenza grande nel connubio immagine-musica e sa scegliere ottimamente i suoi collaboratori. Un po’ di tempo fa ascoltavo un suo set di cover mix con vari brani di artisti da tutto il mondo missati con alcuni suoi fields e altri lasciati così come sono. Tutta musica fantastica, da David Lang a Steve Reich, da Serpentwithfeet ai Tenores sardi, da Kelly Lee Owens ai canti degli uccelli del Venezuela. Un vero viaggio sonoro denso e variegato.
Mi raccontate un po’ la collaborazione con Aarset e con Rabbia?
Alessandra: La collaborazione con Michele era tappa obbligata. Era un musicista troppo affine alle nostre idee e al modo di concepire l’improvvisazione. Ludovica aveva collaborato con lui in un altro progetto e decidemmo di chiedergli di suonare con noi. Con Michele è impossibile non divertirsi. È un musicista di livello e ha una fisicità e un modo di stare allo strumento che coinvolgono sempre. Personalmente da lui ho imparato tanto, soprattutto il modo in cui ricerca quel mix di acustica ed elettronica e la sua modalità di suonare “in the flow”. Riesce a gestire ed approcciare ad una serie strumenti ed elementi sonori come fosse uno solo. Con lui abbiamo collaborato nell’ultimo disco INLAND IMAGES (FolderolRecords) ed è stato proprio lui a coinvolgere Aarset in due brani. Ovviamente siamo state felicissime di sapere che Eivind Aarset avrebbe collaborato al disco. Inizialmente è stato difficile decidere su quale brano ci sarebbe piaciuto avere le sue sonorità. La scelta è poi caduta su “Butcher Shop”, il terzo del disco, sia per il suo andamento, sia perché abbiamo immaginato che la batteria elettronica utilizzata da Michele in quel brano potesse essere resa da Eivind ancora più densa. Ha saputo ricamare con timbriche ed effetti su tutti i nostri suoni e sulla voce in particolare, aggiungendo quelle sonorità che hanno qualcosa di speciale, ricco e unico che caratterizza il suo modo di suonare.
Ludovica: Sì, sono entrambi musicisti assolutamente liberi e rigorosi allo stesso tempo, per cui nessuna idea è preclusa da principio e che quindi permettono alla loro musica di fluire nella sua più sincera espressione.
Avete un nuovo disco in arrivo, si muove su coordinate simili a quelle di Inland Images?
Alessandra: Abbiamo molto su cui lavorare e qualcosa di nuovo probabilmente arriverà il prossimo anno. Per adesso l’idea è quella di registrare soprattutto improvvisazioni su materiale sonoro nuovo e cercare condotte non ancora utilizzate. Se si muoverà sulle stesse coordinate di questo disco ancora non lo sappiamo. Conoscendoci, temo che cambieremo idea più volte prima di planare su un’unica direzione…
Cosa ascoltate, cosa leggete, cosa guardate?
Ludovica: Ascolto di tutto. In questo periodo un po’ di elettronica, Holly Herndon, Tim Hecker, alcune cose di Alessandro Bosetti, molte cose random che mi capita di intercettare e che non conosco. Giovani musicisti che ho ascoltato ultimamente, amici e non, Eve Risser, Daniel Blumberg, kNN, qualche disco appena uscito, come Fire! Orchestra o cose che riascolto come Jeanne Lee o Murolo. Mi fermo qui. Generalmente leggo per lo più narrativa, l’ultimo bel romanzo è stato “Quello che ho amato” di Siri Hustved, oltretutto moglie di Paul Auster, scrittore che ho letto tanto. Adesso invece ho iniziato una cosa completamente diversa, l’autobiografia di Porpora Marcasciano, che racconta nascita e sviluppo del movimento LGBT dagli anni Settanta. Leggo volentieri anche la poesia, soprattutto nei periodi in cui lavoro ai testi. Guardo film, documentari, di diverso tipo, da Kim ki Duk a Massimo Troisi. Non sono invece una fan delle serie, ne ho viste poche, ma ormai mi sono arresa, quasi sempre dimentico per settimane di vedere le puntate successive. Mi dispiace un po’, sicuramente perdo cose interessanti, ma ad oggi preferisco il tuffo singolo nello spazio tempo di un film, che un bagnetto in una storia un po’ diluita tutti i giorni. E poi statisticamente mi piace di più il modo di narrare storia e personaggi di un film che di una serie.
Alessandra: Ascolto moltissimo i suoni che vivo e quando posso li registro con il telefono. L’ultima rec è una nenia cantata da alcune signore in chiesa durante il rosario delle sei, una sirena di ambulanza a Toronto e frinire di cicale a volontà. Ultimamente seguo Alexander Schubert, compositore che vive ad Amburgo che crea opere audio visive davvero notevoli. Adoro ascoltare cantautori italiani e svedesi. Mi piace la musica tutta quando è immersiva, quando svela cose che non riesci a vedere. Non leggo molti romanzi, preferisco leggere saggi di qualsiasi genere e adoro le autobiografie. Tra gli ultimi libri abbiamo: “Pellegrinaggi verso il vuoto” di Augusto Shantena Sabbadini, un libro con allenamenti e schede dettagliate sulla corsa, “Sono apparso alla Madonna” di Carmelo Bene, “Attraversare i muri” di Marina Abramovich, “Il Tempo” di Stefan Klein. Nell’ultimo periodo guardo in continuazione tutorial di cucina giapponese soprattutto di “Peaceful Cuisine”, dove vengono utilizzati solo suoni ASMR in presa diretta e non c’è musica. Adoro il cinema in tutte le sue forme.
Se volete aggiungere qualcosa voi… a vostro piacimento!
Il disco INLAND IMAGES è uscito per la FolderolRecords, una nuova etichetta di Roma.
Il nostro sito web www.o-jana.com
Ringraziamo la bravissima Valentina Pascarella, autrice del video “The Crescent Moon Bear” e il fantastico Klang di Roma che ci ha ospitato per le risprese.
Volevamo ringraziare sentitamente Nazim Comunale che ci fatto questa intervista.
Prossime date:
8 settembre @Klang – Roma;
13 settembre ospiti all’Europe Jazz Network – Novara;
4 ottobre – Budapest Festival;
26 ottobre – Sala Vanni – Firenze;
16 novembre – London Jazz Festival