Strange and tasty recipe – Le ricette assurde di casa Purple Tape Pedigree
Green Mango Maca…
Ingredienti (in ordine di applicazione)
– 1 tazza di latte di mandorla
– 1 pezzetto di zenzero di grosse dimensioni, fresco e pelato
– circa un’oncia di noci fresche (da sostituire a scelta con delle mandorle fresche, 23 o 25 vanno bene, e aggiungere un pizzico di sale)
– 1 banana ben matura
– 1 tazza di mango tagliato a pezzetti, ghiacciato
– 1 cucchiaino di alga di spirulina in polvere
– 1 cucchiaino di radice di maca peruviana in polvere
– 3 cucchiai di semi di canapa
Inserire il tutto nel frullatore ed aumentare gradualmente la velocità fino a completa liquefazione (dai 45 ai 60 secondi). Non ingerire cibo o bevande per almeno quaranta minuti dopo la consumazione.
Esatto, avete appena letto la ricetta di un frullatone. Per quanto possa sembrare insolito (qui su The New Noise, a partire da chi scrive, forse c’azzecca meglio il luppolo…) non può non incuriosire il fatto che questa e altre smoothie recipe siano abbinate a una serie di cassette licenziata da PTP, che sta per Purple Tape Pedigree. Etichetta-collettivo attiva a New York dal 2009 grazie al lavoro del suo fondatore Geng, quest’anno ha tirato fuori materiale piuttosto chiacchierato, basti pensare agli aspri e sferzanti grovigli ritmici del trio russo WWWINGS, che manco a dirlo è poi approdato sulla Planet Mu di Mike Paradinas. Cassette musicali, dicevamo, da un lato contenenti un brano di presentazione che va dai quindici ai venti minuti, e dall’altro una traccia audio in cui voci anonime, sostenute o intervallate da misurati abbellimenti sonori, discettano con serietà di temi quali sorveglianza, queerness, transumanesimo, critica alla supremazia bianca, razzismo sistemico e via dicendo. Si tratta suppergiù degli stessi argomenti cui rimanda una buona parte delle più recenti produzioni di musica elettronica, o almeno di quelle che si sta ricominciando a definire “nuove” perché capaci di rivolgersi al futuro come non succedeva da un bel po’ di tempo. Per inciso, non è un caso che PTP sia imparentata con una label come NON Worldwide, collettivo e piattaforma apolide che tramite la musica, e dando voce alla diaspora africana, intende organizzare nuove forme di resistenza attiva e autodeterminazione. Di suo ci mette un approccio riassumibile nella proposizione “healthy body, healthy mind”. Dichiara Geng in una nota scritta per il magazine Tiny Mix Tapes: The concept of ‘healthy body, healthy mind’ is also presented as a means of defense from other avenues of ‘control’ […] CELL explores this mantra through found clips of ASMR, pineal gland repair, other ‘new age’ therapies/remedies, and a smoothie recipe by me. Se è vero che il capitalismo, oggigiorno, fa sempre più presa sul nostro corpo e su ciò che assumiamo, ecco che riusciamo a spiegarci il perché di queste stralunate ricette e, di rimando, dell’intera filosofia che sta alla base del succitato approccio: al di là delle ovvie provocazioni, significa impiegare una strategia simbolica che punti a depistare le implicazioni bio-politiche delle attuali forme di controllo.
Di seguito una disamina delle cassette fino ad oggi pubblicate.
Digital brutality e radical softness
La prima uscita risale allo scorso giugno ed è affidata a Baby Blue, giovane produttore sul cui conto si sa poco o niente. A lui spetta il lato A, nella forma di un mixtape. Si tratta, qui come nel resto della serie, di circa un quarto d’ora di tracce inedite sfumate in successione, tra sound-design alienante ed estratti audio pescati su YouTube o chissà dove sul web per essere debitamente manipolati. Nell’altra facciata gli argomenti discussi grossomodo girano attorno all’idea di sorveglianza (e conseguente paranoia) in una società sempre più panottica. Void Gate, questo il titolo, è emblematico del modo in cui gli artisti di casa PTP declinano l’attuale concetto di club music decostruita. Pensate all’elettronica post-globale di una Elysia Crampton, magari incattivita da beat irruenti e basse frequenze poderose. Che però, attenzione, hanno buon gioco ad affogare in break improvvisi, scivolamenti e disturbi vari. Come dire: non fatevi illudere da quella deriva gabber – cassa dritta e distorta – che s’impone a metà traccia per poi dileguarsi nel nulla di un panorama digitale. Forse avrebbe più senso prendere questi picchi di orecchiabilità (perché sì, in Void Gate alberga uno strano senso della melodia) e focalizzarsi sul loro carattere residuale, più che sulla loro capacità di fornire garanzie emotive.
Prima di andare oltre mi permetto di ipotizzare un parallelo tra questo Void Gate e un’altra, recente produzione targata PTP, cioè il disco di N-Prolenta uscito ad agosto con tanto di cover art interattiva e apposita app in realtà aumentata. Nelle note Baby Blue descrive Void Gate come un riflesso, diretta conseguenza di uno scavo interiore che ha portato il musicista a riconvertire in positivo le sue debolezze. The idea is kind of like a system maintenance for one’s own void and confronting the darkness in one’s heart. Un processo non poi così lontano dall’afflato umano che N-Prolenta ha riversato tra i brani e nel sottotesto del suo A Love Story…, forse mescolando la riflessione non identitaria sulla soggettività sessuale a quella radical softness [1] teorizzata dall’artista e poetessa Lora Mathis (e da molti erroneamente scambiata per una forma di cis-femminismo), polo opposto alla tracotanza del gradasso quale feticcio dell’era Trump.
Continuiamo allora a seguire questa scia, saltando per ora il secondo e il terzo capitolo della serie per approdare direttamente al quarto, firmato dalla londinese di origini cinesi/malesiane Flora Yin-Wong (vicina al giro PAN, l’etichetta di Bill Kouligas) e intitolato City God. Il motivo è presto detto: se l’introspezione che sta alla base di Void Gate spinge verso un’ottimizzazione delle consapevolezze, la audio therapy di City God, condensata nei quindici minuti che vanno a comporre il lato B, anela all’effetto liberatorio di una più pura meditazione. Gli armonici delle campane tibetane stendono lunghi drone che fanno curiosamente pensare alla Eliane Radigue del periodo buddhista, per poi lasciare il posto al dettato inumano di una ricetta, quella del frullatone come di consueto suggerito. Ma la radice orientale funge da veicolo anche per la prima facciata: nella tradizione religiosa cinese City God è il nome dato a una divinità che si crede tenga in custodia i grandi agglomerati urbani. E non è difficile, nei sette brani che racchiudono il breve mixtape uscito lo scorso ottobre, ravvisare certe reminiscenze estremo-orientali farsi spazio tra ritmi secchi e deflagrazioni inaspettate. Per Flora è un modo insieme agli altri di cercare un link tra la sua attuale identità e il sangue che le scorre nelle vene. È doveroso ricordare che una narrazione simile la si può scorgere nel lavoro della già citata e ben più nota Elysia Crampton, un campo fertile in cui l’artista transgender trova modo di rapportarsi alle origini sudamericane, che nello specifico affondano nella cultura Aymara boliviana [2].
Citazionismo pop in salsa riot
La seconda cassetta, che risale allo scorso agosto ed è curata da Club Cacao (altro misconosciuto), dà il via ad una meditazione sui modi in cui razzismo sistemico e imperialismo stanno alla base dello stato di sorveglianza; come ormai avrete capito, sarà necessario sorbirvi l’audioascolto ospitato nella seconda facciata per estrarre una più diretta verosimiglianza tra gli intenti e il risultato finito. Ma occupiamoci della prima, perché Vae Solis, pur non allontanandosi troppo dalle produzioni di cui avete appena letto, mette in campo roba nuova: tra ondate di digital field recording, esplosioni di elettricità e basse frequenze che talvolta fungono da appiglio ritmico, è difficile non fare caso a quei campioni vocali deformati all’inverosimile. Pare sia la voce di Michael Jackson, rubata da una qualche hit e resa irriconoscibile. Ci avviciniamo ad un elemento che in molta di questa elettronica hi-tech risulta tanto ricorrente quanto discusso: la presenza di contenuti pescati nel mare magnum del mainstream pop, da molti ritenuta intollerabile nonostante si tratti di una convergenza che, per sua stessa natura, non è certo estranea alla necessità di decontestualizzare. I dj-set / mix della stessa Flora, per fare un esempio, ne sono pieni. Più che altro è un grosso malinteso, e pazienza se l’ultima cassetta della serie gioca proprio con questi orizzonti di contaminazione, portandoli anzi al parossismo. Disponibile da dicembre, Riot In Versace è opera di Isis Scott, anche lei affiliata al giro NON Worldwide. Qui si fa chiamare Acapella, una ragione sociale sintomatica del suo modo di lavorare. I venti minuti della prima facciata sono infatti un concentrato di hit mainstream in versione acapella (roba black, chiaramente, come l’arcinoto duetto tra Busta Rhymes e Mariah Carey), con i ritornelli abbassati di tono nella migliore tradizione chopped & screwed. E se a questo aggiungiamo il contesto in cui affiorano, ossia le urla e la confusione della sommossa di Ferguson, Missouri, occorsa nel 2014, abbiamo una misura di quanto Riot In Versace possa risultare straniante. Significativamente, per frenare la comunità nera in rivolta, in quell’occasione la polizia ebbe modo di rimettere in strada i famigerati cannoni di suono “inaugurati” a Pittsburgh durante il G20 del 2009, gli stessi che hanno stimolato le acute riflessioni di autori come Juliette Volclere in Extremely Loud: Sound As A Weapon, o Steve Goodman – meglio noto con l’alias musicale Kode 9 – in Sonic Warfare: Sound, Affect, And The Ecology Of Fear.
Panorami senza natura
Il brano di presentazione della terza cassetta – che nel lato B espande la meditazione avviata con Vae Solis – è forse il mio preferito del lotto. Si intitola “keys2diversion” e lo firma ssaliva (si scrive proprio così), produttore belga che, partito da un lo-fi pop in piena sbornia ipnagogica, è oggi autore di una proposta completamente nuova. Se fino a un paio di anni fa – ascoltando i suoi dischi su Ekster, Vlek e Leaving Records – era ancora possibile avvertire il senso di pigra indolenza tipico di quelle musiche ormai tramontate, allo stato attuale ssaliva viaggia su traiettorie diverse. Così, potremmo dire che “keys2diversion” porta a compimento un graduale processo di maturazione: i bozzetti anni Ottanta da spiaggia desolata con orizzonte sfocato cedono il passo al carattere freddo, inumano, di una musica ambient che tra boati e illusorie pacificazioni sembra voler rivestire spazi indefinibili, ibridi e futuristici, in un tempo in cui la pioggia, quella che ssaliva lascia cadere nei primi minuti della traccia, è sempre più acida e l’uomo ha dovuto inventarsi nuovi modi di convivenza con l’ambiente in cui è immerso. Più passa il tempo, più la musica di ssaliva sembra collocarsi al fianco di quella prodotta da gente per molti aspetti accomunabile, come FIS, l’ultimo Dedekind Cut e J.G. Biberkopf (il cui nuovo album, a proposito di panorami del futuro, riflette proprio l’idea di una natura ormai compromessa dall’artificio umano: non a caso si intitola Ecosystem Of Excess).
[1] On Radical Softness, su loramathis.com
[2] Corpi indigeni, corpi estranei: Elysia Crampton e l’eredità Aymara, su noisey.vice.com, 27 ottobre 2016