STILL, I
Il disco in questione appare come punto di convergenza fra i tragitti intrapresi da Simone Trabucchi, già noto come Dracula Lewis e ora alle prese con il nuovo progetto Still, Oltre a fare musica, Trabucchi gestisce una sua etichetta ed è anche parte del duo di artisti visuali Invernomuto. Nelle opere realizzate con Simone Bertuzzi è già da tempo manifesto un interesse verso le tematiche post-colonialiste, prima in “Malù – Lo Stereotipo della Venere Nera in Italia”, quindi con il più famoso “Negus”. Quest’ultimo consiste in un art-docu che traccia un triangolo ideale fra Etiopia, Giamaica e Vernasca, luogo di provenienza dei due autori: apparentemente il piccolo paese dell’Appennino Ligure ha poco o nulla a che spartire tanto con il Corno d’Africa quanto con l’isola di Bob Marley, eppure Simone e Simone hanno rintracciato, nei racconti degli anziani del paese, un episodio che funge da trait d’union in questa singolare produzione video artistica. Pare che nella piazza principale di Vernasca negli anni Trenta sia stata bruciata, in un bizzarro rituale in onore di un reduce locale dall’invasione dell’Etiopia, un’effigie del negus Haile Selassie I, quello che dai rastafariani viene considerato come la reincarnazione del Messia. Da qui l’idea di inscenare nella piazza un controrituale officiato dal mitico Lee “Scratch” Perry.
Hundebiss Records, l’etichetta di Trabucchi, nelle sue non numerose uscite – una trentina di titoli in poco meno di dieci anni – ha spaziato in diverse direzioni, dal noise di Hair Police, Aaron Dilloway e Sewn Leather al cloud rap di Lil Ugly Mane, dal Lorenzo Senni versione Stargate a cose più scoppiate, tipo i vhs di James Ferraro e Hype Williams, entrambi agli albori, o il difficilmente catalogabile Èlg. L’ultima pubblicazione può essere considerata come una spia della deriva cyber-mondialista intrapresa con Still: trattasi del dominicano Kelman Duran, autore di un album (disponibile per ora solo in versione digitale) che, fra similcumbia e reggaeton, introduce nella dancehall qualcosa che assomiglia a una riflessione sulla contemporaneità. Infatti, con quest’album su Pan (etichetta fra le più attente a veicolare il suono dell’oggi), ci troviamo musicalmente più o meno dalle parti di Duran. Apparentemente siamo proprio in presenza del tentativo di innestare una lettura specifica del presente (in cui, ad esempio, Ras Tafari viene assimilato ad un microchip, vedi traccia uno) su di un immaginario che troppo spesso viene declinato al passato, in ciò che potremmo chiamare post-dub, una maniera piuttosto peculiare di trattare i ritmi in levare e le sonorità dub che sembra maturata più alla luce dei led che al sole dei Caraibi. L’album è frutto di un lungo lavoro che trae ispirazione dalla raccolta in giro per il mondo di musiche dancehall e dub anni Ottanta e Novanta; fondamentale nell’operazione è stato il reclutamento delle voci, sei in tutto, all’interno della comunità etiope di Milano. Quello che Still crea è una sorta di cortocircuito fra culture diverse: inserendo voci africane su ritmi caraibici, buttando una sensibilità musicale tutta europea sulla dancehall di uno slum africano, in assonanza evidente con il gqom sudafricano, il progetto punta a spiazzare, fin dalla copertina che ritrae un ambiguo replicante opera di Mimmo Rotella, a metà fra la maschera rituale e il travestimento cyber, accompagnato da ideogrammi inventati, di impossibile decifrazione. Una divertente metafora dell’irriducibile complessità del presente.