STEVE RODEN, Gradual Small Fires (And A Bowl Of Resonant Milk)
Nel 2012 l’Università di Hong Kong commissiona a Steve Roden alcune opere da esporre il giorno dell’inaugurazione del Creative Media Center progettato da Daniel Libeskind. In risposta all’invito, il rinomato artista californiano realizza cinque sculture sonore da posizionare in angoli secondari dello spazio, affidando ad esse il compito di catturare l’attenzione dei visitatori, spingendoli a isolarsi e a dedicarsi a una breve esperienza di ascolto immersivo.
Estratte dalle piccole strutture in plexiglass a cui in origine erano connesse, le cinque tracce trovano adesso nuova casa in una pubblicazione, altrettanto intermediale, curata da 901 Editions. In questa veste, l’opera sonora cesellata da Roden si arricchisce di un sesto capitolo composto per l’esposizione “Sound art. Sound as a Medium of Art” al ZKM di Karlsruhe (“Small Fire 5”) ed è affiancata da un libro che contiene una serie di disegni dello stesso Roden ed è introdotto da due testi scritti rispettivamente da Daniela Cascella e Michael Ned Holte.
Concepite come sonorizzazioni delle immagini di “Various Small Fires and Milk”, libro fotografico di Ed Ruscha palesemente riecheggiato dal titolo del lavoro, le sei tracce configurano una suggestiva sequenza di attenuati flussi sonori costruiti a partire da field recordings catturati in Danimarca durante un incendio, a cui si sommano risonanze acustiche estratte da vari strumenti e oggetti. Il tutto viene manipolato e filtrato attraverso l’utilizzo di vari effetti, assumendo la forma di libere strutture che, assecondando la poetica del loro autore, rinunciano a definire un itinerario narrativo preciso, favorendo la prefigurazione di scenari possibili nutriti dall’interazione tra tessiture concrete e spazi silenti. Sono paesaggi lowercase percorsi da crepitii e frequenze acusmatiche, notazioni soniche che introiettano principi cageiani e assolutezze feldmaniane, capaci di riportare in mente visioni dell’Antico Oriente e dei suoi giardini di pietra, suggestioni cosmiche pervase dal rumore delle stelle e la scarna, contemplativa sacralità della campana tibetana.
La combinazione mutevole di segni essenziali e pause, formalizzata secondo indeterminate griglie geometriche o forme fluide ed irregolari, ritorna nella parte pittorica dell’insieme, creando un’ulteriore connessione con l’immaginario di Ruscha, in quanto universi concepiti entrambi come puro stimolo sensoriale aperto alle possibili interpretazioni che un’immersione visiva e/o aurale profonda e totalizzante può attivare in chi si abbandona alla sua penetrante forza evocativa.