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STEPHEN CORNFORD, 5/12/2013

Cornford

Bologna, Raum.

La qualità degli eventi del Raum è ormai garantita dalla sua esperienza, che permette ad artisti di altissimo livello di esibirsi in uno spazio dalla splendida architettura e tecnicamente perfetto. Grazie a quattro ottime casse appese al soffitto, la vasta stanza bianca si riempie di un suono di qualità eccellente, in grado di valorizzare concerto che non avrebbe reso allo stesso modo in un ambiente diverso. In particolare questa sera è importante sentire ogni minimo fonema creato: ogni frequenza ha il suo ruolo nel set.

Cito il sempre presente foglio esplicativo che viene distribuito all’entrata del Raum: “Il lavoro di Cornford nasce da una fascinazione per i dispositivi audio di uso comune e per il modo in cui questi mezzi venduti per consumare musica determinano in modo crescente il nostro coinvolgimento nella sfera uditiva. Riconfigurare questi strumenti dall’interno, re-immaginarne la funzionalità e opporsi alla loro obsolescenza cercandone l’intrinseca poesia sono per Cornford strategie con cui sfidare le convenzioni d’uso, il conformismo sociale e il mito del progresso tecnologico”. Traslato in musica: Cornford utilizza un set che appare scarno (un mixer e un giradischi) per costruire, e in seguito sgretolare, un insieme sonoro ruvido e potente.

L’inizio viene inciso dallo scricchiolare di una puntina su di un giradischi che porta un vinile non solcato, sul quale però verranno in seguito effettuate delle modifiche, facendolo vibrare e aggiungendoci liquidi. Il giradischi è fatto roteare manualmente tramite un’asta centrale, all’interno della quale confluiscono dei cavi. Questo processo fa sì che il suono generato sia correlato in modo diretto a un’azione fisica: il fruscio cresce in continuazione, sia di intensità sia di volume. Nel momento in cui si è stabilizzato il sottofondo, altri corpi sonori interagiscono e si raggiunge una mole maggiore tramite un susseguirsi di potenti bassi palpitanti. Questo dà vita a un sistema dinamico, inframmezzato da feedback e pochi altri rarefatti inquinamenti. Lo scheletro potrebbe ricordare un disintegration loop al contrario, perché qui il pezzo si crea partendo dalla cenere e non viceversa, ma – a differenza dei capolavori di Basinski – mancherà la totale essenza di una traccia, dato che qui si oscilla fra realizzazione completa e timidezza a venire fuori. La musica è un’evoluzione possente e a tratti oscura di ciò che all’inizio era partito come un fruscio indistinto, le casse sopraelevate fanno vibrare lo spazio e il mio corpo, che cade ipnotizzato dalla continua rotazione del disco. I toni raggiungono livelli fisici, palpabili a volumi notevoli, l’agglomerato dei crepitii e delle spinte soniche trascina verso un luogo (psichico) fra il surreale di Nate Young e l’astratto di Steve Roden. Quando la digestione del mixer termina, Cornford plasma un’implosione dal timbro harsh, come a rilasciare le menti ormai del tutto rapite da quello che sono pronto a nominare come uno dei concerti dell’anno.

Grazie a Luca Ghedini e Xing per le foto.