STEIN URHEIM, Simple Pieces & Paper Cut-Outs
A due anni dalle meraviglie esotiche di Utopian Tales, composte per una mini-orchestra di sette elementi, il chitarrista e autore norvegese Stein Urheim torna a deliziarci con un nuovo album, il suo quarto in solitaria, uscito come d’abitudine per la vicina etichetta Hubro. La novità è che in Simple Pieces & Paper Cut-Outs, a differenza dei precedenti lavori in solo, Urheim non fa affidamento a nessuno dei numerosi strumenti – anche di natura non occidentale – che è in grado di suonare, contestualmente rinunciando alla tentazione di aggiungere componenti, parti e filtraggi di origine elettronica: qui si tratta di una chitarra acustica punto-e-basta; puro fingerpicking “senza fronzoli”, leggiamo nel comunicato stampa.
Per Urheim l’idea che sta alla base dell’album è quella di registrare una chitarra acustica senza alcuna sovraincisione, puntando tutto sulle cosiddette accordature aperte e sulle peculiarità timbriche dello strumento utilizzato: una chitarra acustica artigianale realizzata sul modello delle vecchie sei corde jazz messe in commercio dalla Selmer nel corso degli anni Trenta. Data la qualità ineccepibile delle registrazioni da cui provengono i dodici brani (masterizzati da Giuseppe Ielasi), questa chitarra è un po’ come ascoltarla in prima persona: il suono è limpido e fedele in maniera tale che è facile avvertire una sensazione di soddisfacente prossimità. Aggiungete, e non è una novità, che al provetto musicista nordico riesce molto facilmente di mandare in visibilio ogni buon appassionato di chitarra country e blues. Niente virtuosismi, però, niente voce grossa da campione delle tecniche bottleneck. Qui, piuttosto, si tratta di intimo riserbo, di contegno e senso della misura: attitudine necessaria se si vuole porre l’attenzione sul valore del suono in quanto tale, the value of sound as sound, seguendo ancora le dichiarazioni rilasciate dal musicista classe 1979. D’altro canto, va precisato che Urheim non è tipo da lasciarsi ingessare in rigidi formalismi e cocciutaggini timbriche, quindi aspettatevi una dozzina di brani molto brevi, piacevoli e divertenti, tra sublimi paesaggi armonici minimali e quelli che sembrano essere dei bozzetti volutamente non finiti, posti su una linea che congiunge il magistero di John Fahey con quello dei chitarristi spagnoli e brasiliani (Rodrigo e Villa-Lobos sono i due nomi citati).
È sempre bello ascoltare la musica di qualcuno capace di far sembrare facili le cose difficili. Ma nello stesso tempo, e a partire dal titolo dell’album, è come se Urheim volesse ricordarci che – come si dice? – le cose si fanno anzitutto per gioco, o qualcos’altro che non riesco a formulare se non in maniera fastidiosamente retorica. Ha senso, allora, che in allegato al vinile ci siano 40 pagine che illustrano la partitura e le tablature. Chi è fortunato abbastanza da saperlo fare, può interpretare i brani a proprio piacimento.