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STEFANO PILIA & VALERIO TRICOLI, Cantor Park

Il ricordo e la memoria, intesi come canoni estetici, trasformati e modellati in forme sonore, sono concetti ricorrenti nella pratica artistica di Stefano Pilia e Valerio Tricoli. Accedere al regno del “già vissuto”, varcarne la soglia, equivale all’annullamento in un mondo onirico di specchi e frattali, feedback e pulviscolo magnetico. Cantor Park è edito da Improved Sequence e prende forma da una performance – commissionata da Xing (Bologna) e svoltasi nel 2021 – nel corso della quale i due si interfacciavano a distanza, tra rimandi e manipolazioni reciproche.

Il processo alchemico che ha dato vita al disco, collaborazione fra questi due giganti del panorama elettroacustico (ma non solo, lo sappiamo) italiano e internazionale, sembra fatto apposta per magnificare il gioco di mutamenti e specularità. Dopotutto Georg Cantor altri non è che il matematico che per primo aprì la strada alla teorizzazione e alla definizione del concetto di infinito.

Il “parco” del titolo è quindi dimensione labirintica e frattale, non-luogo virtuale ma tangibile nell’esperienza acustica, che si dissolve però nel tentativo stesso di raggiungerlo, di definirne i contorni precisi. In questo ambiente surreale seguiamo le impronte mnemoniche del materiale sonoro che, creato da Pilia e manipolato quindi da Tricoli, retroagisce sulla propria stessa genesi in una vertiginosa traiettoria a spirale. Ricordo come relazione fra ciò che è stato e ciò che sarà (fusi assieme in un eterno presente), attimo magnetico prima registrato, poi modulato su nastro. Le potenzialità di Tricoli in questo sono note: i 35 minuti del disco ci ribadiscono come l’artista siciliano sia sacerdote e demiurgo senza rivali quando si ha a che fare con l’anamnesi sonora o col rituale straniante che permette l’accesso non mediato alla memoria quale biblioteca acustica, basta considerare i capolavori del recente passato Miseri Lares, Clonic Earth (editi entrambi da PAN nel 2014 e 2016 rispettivamente) e Say Goodbye To The Wind (Shelter Press, 2022) nei quali il concetto di “musique concrète” e del suo “suono senza oggetto” vengono sviscerati e sezionati.

In Cantor Park il meccanismo è simile, ma i livelli di complessità aumentano in modo esponenziale, perché la solitudine dell’artista e del suo strumento viene meno, interagendo con l’alterità di Stefano Pilia. Non solo relazione artistica, quindi, ma anche e soprattutto umana, avendo entrambi militato in quell’esperienza caleidoscopica che è stata “3/4HadBeenEliminated”, assieme a Claudio Rocchetti e Tony Arrabito.

Siamo testimoni, come ascoltatori, di un lungo e cangiante fenomeno di riflessione fra specchi affrontati: la chitarra, estesa attraverso una miriade di impulsi elettronici, diviene nastro magnetico, si incarna in un flusso pulsante, nervo scoperto che la mano è in grado di elicitare, variandone la velocità fino a esploderlo nelle sue componenti elementari. Non stiamo vedendo però l’asettico riflesso fra superfici metalliche, austere e geometriche, quanto piuttosto oggetti opachi, irregolari, la cui natura di specchi è costantemente in bilico, in tensione. È nello spazio-tempo in cui i due elementi si cercano, si rincorrono, nelle insenature e negli sbalzi di una narrazione non lineare che avvengono le più intense e totalizzanti epifanie del disco. Dove, prima di ricomporsi nuovamente cristallina e abrasiva, la pura melodia di chitarra si frantuma in un pulviscolo di distorsione – o anche nelle parcellizzazioni di spettri elettroacustici – assistiamo al materializzarsi della memoria come luogo oltre il suono, oltre la manipolazione e il feedback fra i due artisti.

Cantor Park è una perla rara, un miraggio evocato dalla perfetta intesa fra due anime affini. Ci rammenta che accedere al territorio liminale fra oggetto e sua manifestazione acustica, fra ricordo e rappresentazione, richiede strumenti e abilità non comuni, ma che se è fatto col rispetto dovuto, può dare dei frutti unici.