Stefano Leonardi: rumori e ritmi incomprensibili che per qualcuno di noi sono musica
Flautista, polistrumentista trentino, ascoltatore onnivoro e vorace, abitato dalla passione per i suoni non ortodossi: Stefano Leonardi è già al terzo disco con la storica Leo Records. L’ultimo, Aura, uscito di recente, è la buonissima conferma, dopo L’Eterno, di una mente e di un’anima felicemente inquiete che continuano a scavare alla ricerca della sorgente da cui sgorga l’acqua perenne dell’improvvisazione. Con lui nel disco anche musicisti che conosciamo bene, come Marco Colonna e Antonio Bertoni, ovverosia Ongon. Menzione d’obbligo per il bell’artwork, ancora una volta opera di Re delle aringhe. Ci sembrava necessario approfondire con il diretto interessato e abbiamo scoperto un vero e proprio fiume in piena.
Dall’ascolto di Aura, come era accaduto per il disco precedente, traspare un tuo profondo amore per la storia del jazz libero. Una musica che affonda le radici in una certa storia senza smettere di cercare possibili altrove. Mi racconti il tuo percorso di ascoltatore e di musicista? Quali le tue folgorazioni lungo la via?
Stefano Leonardi: Alla musica mi sono avvicinato da bambino, a otto anni. L’amore per il flauto è stato immediato, dopo averlo visto suonare in televisione, probabilmente era il flauto d’oro del maestro Severino Gazzelloni, una folgorazione. Il mio percorso non è quello classico, o meglio, ho frequentato qualche anno una Scuola Musicale che mi ha dato le basi. Ho iniziato a suonare a undici anni nella banda appena rifondata del mio paese, seguendo dei corsi strumentali. Parallelamente cresce il mio percorso di ascoltatore: trovavo in quasi ogni espressione musicale dei motivi di interesse, sia a livello emotivo che razionale. Prima di essere rapito dal mondo del flauto jazz, ho spaziato tra musica popolare e bandistica, classica (dal barocco al primo Novecento), prog (Jethro Tull e Focus in primis), punk, fino a certa techno/hardcore. Mi sono fatto travolgere dal metal (dal thrash a Pantera, Fear Factory, Sepultura e soci), sono arrivato fino alle oscure frange del black norvegese e svedese (Satyricon, Marduk, Immortal, Enslaved), insomma a parte la musica fusion o quella da ballo liscio che addirittura mi infastidisce, ho ascoltato di tutto! C’è voluto poi un anno di servizio militare per bloccare questa voracità musicale e farmi conoscere un mondo nuovo, il jazz appunto. La scintilla è partita nei primi anni 2000 quando ho conosciuto Stefano Benini, che poi è diventato il mio maestro e ora un grande amico. Con lui e Michele Gori condivido il progetto tutto di flauti Flut3ibe. Una avventurosa caccia ai dischi, mi interessavo sempre più a questo nuovo mondo, compravo tutti i cd in cui compariva un flautista (prediligevo il Bop, l’area West Coast, la Bossa Nova e il Latin Jazz). Lo spostamento di interesse dal flauto di Ian Anderson, Roland Kirk, Herbie Mann, Sam Most, James Moody, Dave Valentin, Nicola Stilo mi hanno condotto a Jeremy Steig, Paul Horn, Yusef Lateef, fino ad arrivare ai modelli meno allineati come Eric Dolphy e Sam Rivers, James Newton, Jiulius Hemphill, Nicole Mitchell o al grande (in)dimenticato Thomas Chapin. Senza rendermene conto mi sono trovato immerso nel cosiddetto jazz libero, che sentivo in qualche modo più mio. La vicenda del movimento free mi ha catturato (l’ascolto di Ascension, certi lavori di Albert Ayler, dell’Art Ensemble o Sun Ra sono stati fondamentali), un lungo e importante momento culturale, storico, artistico, una sorta di liberazione intellettuale e sociale che non può essere bypassata. La mia formazione è quindi fortemente legata al jazz, ma questo non fa di me un “jazzista”, non mi sento paragonabile a certi giganti. Diciamo che strumentalmente mi sono formato all’interno di quel linguaggio, l’ho assimilato ma non mi ci sono fermato dentro, è un’evoluzione graduale, lenta e costante di un flautista autodidatta.
Un critico acido potrebbe dirti: l’ennesimo disco di improvvisazione. Qual è il tuo rapporto con questa pratica? Il confine tra ispirazione e caduta in certe situazioni può essere davvero sottile.
Questi 45 minuti sono il condensato di due giorni di session. Si passa da episodi brevi e quasi aforistici a momenti più densi e dilatati, anche in funzione di una maggiore fruibilità per l’ascoltatore. Negli ultimi anni il “sistema” di ascolto è notevolmente cambiato: tutto è veloce, tutto deve correre ancor prima di aver premuto play. Dal vivo è sicuramente diverso, c’è anche un dialogo visivo e di gestualità con chi ti ascolta. Tornando alla domanda, è vero. Un critico acido potrebbe trovare inutile tutto ciò, si continuano a pubblicare dischi che quasi nessuno ascolta. Risulta davvero complesso offrire a chi ascolta l’essenza espressiva e la suggestione che sgorga nell’istante in cui quei suoni nascono. Questa linea tra ispirazione e caduta nel già sentito è molto sottile, sta ad ognuno di noi decidere, rischiare e mettersi in gioco in completa libertà. L’agire anticipatamente sul suono, proprio perché l’atto creativo non può essere già scritto, comporta dei rischi elevati. “Il tempo è nell’istante” e suonare musica libera non vuol dire lasciare tutto al caso. La magia della sorpresa, dell’inaspettato, comporta grande concentrazione, preparazione e responsabilità.
Bisogna conoscere bene questa disciplina, il gesto sonoro che nasce e si forma in quel preciso istante/situazione e che anticipa il pensiero del “che cosa si dovrà fare”. In definitiva questo tipo di approccio (che a me piace) crea una sintonia rara, una conversazione aperta e immediata che se funziona arriva dritta a chi ascolta, con sincerità.
Il disco è completamente improvvisato o avete lavorato su canovacci o su suggestioni extramusicali? Raccontaci la chimica di questo quintetto. Conosciamo bene sia Colonna che Bertoni, dicci qualcosa in più sulla quota straniera dell’ensemble.
Sì, Aura documenta una session di improvvisazione; non amo molto questo termine che ha al suo interno troppe implicazioni, parlerei più di composizione istantanea del nostro tempo, la musica è totalmente creata all’istante e si fonda perciò su rapporti di relazione libera tra i musicisti. Sulle suggestioni extra musicali… beh, dopo l’ascolto di questo disco queste possono emergere. Qualcuno potrebbe sentirsi proiettato in una dimensione astrale, cosmica; dimensioni esoteriche che personalmente non mi interessano molto. Fa comunque piacere che la nostra musica crei un varco, che sconvolga in qualche maniera. Ritengo che il creare e l’ascoltare (assorbire) questo tipo di musica e di messaggi sia ugualmente impegnativo e darsi una direzione, veicolare la musica non è cosa facile. Molto dipende anche dalla predisposizione di chi ascolta, dalla disponibilità di mettersi in gioco, libertà in musica e libertà di ascolto sono l’opposto di “comodità”. Direi che composizione istantanea del nostro tempo è emancipazione. In Aura tutto ruota attorno al concetto di “respiro”. Questa parola in greco è aria in movimento, vento leggero, inteso anche come elemento necessario per la respirazione e la vita. Un respiro vitale certo, ma se vogliamo vedere “oltre”, anche una luce o un alone della nostra anima. Aura è anche (coincidenza) il nome di un vento che passa nella mia regione, l’Ora del Garda appunto. L’album può essere letto (e visto negli splendidi acquerelli di Massimiliano Amati) come un’apertura ad una territorialità “altra”, con un riferimento all’innesco dell’azione sinestetica dei sensi e al significato simbolico dei colori e dell’energia vitale. Al riguardo, i colori e i titoli dei brani guidano in un viaggio abbagliante tra luce e ombra, tra i “granelli di sabbia” in cui precipita l’oggi. Leo Feigin le ha descritte come “pale di vento sospese in una splendida risonanza cromatica”. Marco (Colonna, ndr) e Antonio (Bertoni, aka Ongon, ndr) sono musicisti dalla mente libera, brillanti, con una sensibilità al suono fuori dal comune. Riguardo alla ritmica svizzera, ho conosciuto Heinz Geisser dai dischi; lo ricordo con William Parker nei bellissimi Leo con il suo Collective Quartet, e nel notevole Orbit con Rob Brown. Fridolin Blumer è un giovane contrabbassista di Zurigo che collabora ormai stabilmente nell’Ensemble 5 proprio di Geisser. Il nostro legame parte dal 2013 quando stavo organizzando un progetto incentrato sulla figura e musica di Thomas Chapin con il violinista Stefano Pastor, poi sfociato in “Conversations About Thomas Chapin”. Mi ha affascinato fin da subito il suo approccio alle percussioni, il suo dar voce a pelli e piatti, la ricerca del suono. Heinz e Fridolin sono, oltre che preziosissimi musicisti, anche persone straordinariamente semplici e in questo progetto credo di aver finalmente trovato un bell’equilibrio umano e musicale sia dal punto di vista timbrico che per le qualità delle singole individualità.
Avverto in alcuni frangenti un che di zen, nel mood, di orientale. Sono fuori strada?
Credo che una certa componente “spirituale” sia presente in ogni persona, anche atea. Io non ho avuto un’esperienza diretta con questa specifica tradizione giapponese. Sono però convinto che non possiamo sottrarci al senso del mistero che è più grande di noi, l’ignoto che funge da collante nella trama del nostro vivere. Il mood che pervade il disco è certamente diverso dal precedente. Nel complesso Aura mette in luce le singole possibilità timbriche, spazi e silenzi, con più rigore e austerità. In qualche modo ha portato a nuove direzioni della musica. Se è vero che Zen è vedere dentro la propria natura, puntare direttamente alla mente-cuore dell’uomo, non sei fuori strada! Sono suggestioni che apprezzo. Un disco magari difficile, a tratti inospitale, ma con un’estetica ben definita. C’è una visione sonora identitaria che unisce con disinvoltura elementi e musica di altre culture alla instant composition. Ricerca non tanto o solo su sonorità futuristiche, ma soprattutto un tentativo di evocare suoni arcaici, primitivi, un grido di terra e polvere. Un album piuttosto occidentalizzato, nonostante certi suoni primordiali e quasi alieni lo collochino in anfratti extraeuropei. Parlerei finalmente di un sound più globale che agisce ad un livello profondo e legato alle nostre radici mediterranee.
Stato di salute delle musiche creative non allineate in Italia, oggi: il tuo punto di vista.
Il “paziente”, la musica da questo punto di vista, è sano, le “strutture che lo hanno in cura” forse lo sono un po’ meno. In Italia abbiamo ormai raggiunto un livello molto alto di qualità tra i musicisti ma non esiste una vera scena musicale compatta, fortunatamente esistono e resistono delle realtà frastagliate al loro interno più o meno conosciute. C’è fermento e nuova linfa specie in alcune aree del Paese dove nascono e appunto stringono i denti dei collettivi. La musica in sé gode di buona salute, ciò che manca è la connessione (umana non virtuale) tra le persone. Il vero punto è arrivare più vicino e più velocemente alla gente, creando aree e spazi di lavoro costruttivi. In un’epoca devota all’individualismo, allo spreco, dove tutto è a portata di tutti con un click ma tutto invecchia in modo schifosamente veloce, sembra che il messaggio musicale ma anche delle Arti in generale non arrivi, o sia sbagliato. Una vibrazione che si affievolisce nel caos globale che decade, perché ormai saturo. Bisognerebbe forse lavorare in sottrazione: meno ma di qualità, meno ma per gli altri. Se un’opera non comunica, non scuote, rimane lì, se va bene viene archiviata nelle centinaia di etichette o peggio ancora nei server di mezzo mondo. Analfabetismo emozionale e vita liquida in una società intorpidita da una superficialità dilagante. Parlando di me e della mia visione musicale, cerco di esprimere me stesso anche in un mercato globale aggressivo come non mai, in continuo mutamento e che clona prodotti culturali vuoti (ma per gli addetti ai lavori rassicuranti).
Il disco esce sulla storica Leo Records. Quali etichette consideri fondamentali nel tuo percorso dentro il jazz?
Sì, questo è il mio terzo lavoro uscito per la prestigiosa label britannica. Ormai con Leo Feigin, il patron dell’etichetta, si è instaurato un bel rapporto, per me è una gioia far parte dell’arcipelago Leo Records. I tempi sono cambiati. Le storiche e gloriose label dei decenni passati sono destinate a sgretolarsi, ma in questo mercato del caos esistono e resistono etichette indipendenti che conducono con passione, tenacia e coraggio questa missione, perché il supporto fonografico (disco) è un aspetto importante della cultura umana. “Rumori e ritmi incomprensibili che per qualcuno di noi sono musica” che fortunatamente vengono pubblicati ancora su lp, cd o mc. Nel mio percorso dentro il jazz sono state fondamentali le storiche Savoy, Prestige, Bethlehem, Xanadu, Pacific, Columbia, Blue Note, Atlantic, Impulse!, ESP-Disk, DIW, Futura, BYG, Silkheart, Mosaic… poca ECM e molta FMP, Leo ovviamente, Black Saint/Soul Note, Red, Splasc(H), Philology, Strata East, Hopscotch, Porter, Ogun, Emanem, Knitting Factory… musica magnifica! Negli ultimi anni seguo con attenzione i cataloghi AUM Fidelity, NoBusiness, Not Two, RogueArt, Corbett vs. Dempsey, Trost, Astral Spirits… e le piccole etichette che in qualche modo esplorano la genialità e il non conosciuto (lode alle nostrane Setola di Maiale, Black Sweat, Holidays, Amirani).
Il tuo primo ricordo musicale.
I rintocchi delle campane della Chiesa del mio paese a mezzogiorno? Scherzo! Difficile farlo riaffiorare, in soggiorno il vecchio Marantz suonava oltre alla musica italiana di moda in quegli anni anche vinili Deutsche Grammophon, sinfonie di Beethoven eseguite dalla Philharmonic Orchestra diretta da Herbert Von Karajan o dischi dei Pink Floyd. Ma il primo ricordo musicale deve essere sicuramente legato a qualche canto popolare di montagna, cori SAT e Sosat… insomma, ero già un Alpino da piccolo!
Tre musicisti che secondo te non sono conosciuti come meriterebbero.
Sarebbe più semplice rispondere al contrario! Purtroppo ce ne sono stati e ce ne saranno sempre troppi. La causa forse sta nella staticità, nell’immobilismo e nella poca voglia di credere alle nuove proposte, ci sono musicisti e collettivi di qualità che non riescono ad avere a livello nazionale (o anche regionale) lo spazio che meriterebbero. È un discorso in realtà più lungo e complesso, un tasto sensibile e non vorrei “difendere” o calpestare nessuno, si entra anche nella sfera personale ed emotiva di ogni musicista; c’è chi è bravo e sa vendere il proprio prodotto (o è ben spinto), chi è bravo e presuntuoso, chi bravo non è ma… Così, a bruciapelo, potrei dirti i Tell No Lies con Edoardo Marraffa, un vulcano sonoro che farebbe scintille anche nelle gelide rassegne europee. (una delle band preferite in assoluto dal vostro cronista, recuperate il loro ultimo Anasyrma e leggete qui l’intervista al leader Nicola Guazzaloca.
Massimo De Mattia con qualsiasi suo progetto, un vero poeta del flauto contemporaneo che appare pochissimo nei cartelloni dei festival nazionali. (ed è davvero un peccato, perché parliamo di un grande, ndr). L’universo sonoro e l’approccio alle percussioni di Paolo Sanna, conosciuto, ma non abbastanza.
Di cosa ti occupi nella vita quotidiana e quanto tempo riesci a dedicare alla musica?
Ho una splendida famiglia, vivo con mia moglie Francesca e mia figlia Giada in un paese della Valsugana, vicino Trento. Sono un musicista ma non ho mai ipotizzato o voluto intraprendere la mia attività artistica come professione. Lavoro da più di vent’anni nel settore della grafica e della stampa in una grande tipografia, ho sempre svolto questa mansione dalla fine degli studi. Logicamente il tempo dedicato ai miei amati “tubi” è variabile (non lo conto più in ore ma in minuti!), diciamo che basta organizzarsi e stabilire delle priorità nella vita, gestire meglio il proprio tempo.
Raccontaci un po’ il tuo parco strumenti: ne compaiono alcuni che non conosco, come il bass xun e il sulittu. Come ti sei avvicinato invece a kaval e launeddas?
Sì, ho bisogno dei “miei” amati tubi, direi che parco strumenti ci sta come definizione! Possiedo parecchi flauti in legno, pietra, alabastro, metallo, con imboccature e diteggiature differenti ma tutti hanno una voce e una vibrazione identitaria propria, che affonda radici antichissime: alcuni capaci di generare suoni sottili e ventosi, altri potenti e inquietanti, con intonazione “selvaggia” da impiegare nel contesto opportuno. Il flauto traverso ha ancora immense possibilità, così come i flauti che provengono da altre culture, solitamente etichettati (ingabbiati) con il brutto termine “etnici”, possibilità che non sono solo puramente coloristiche o timbriche. Non importa quale strumento scelgo o da dove provenga; esso mi dice sempre qual è la sua anima ed è un mezzo che mi apre a paesaggi differenti. Il nostro spirito, che fa parte del nostro corpo fisico, ha un impatto con il suono che ognuno di noi emette, le nostre vibrazioni contribuiscono e caratterizzano il suono di ognuno. Volevo sviluppare un’estetica più personale, così anni fa la curiosità mi ha indirizzato verso nuove sonorità ma senza accanirmi sulla tecnica e sulla letteratura specifica dello strumento; curiosità che certo non voleva farmi suonare una brutta copia di quel tipo di musica tradizionale. Ho ascoltato questi strumenti nella loro identità d’origine ma li uso ovviamente in una prospettiva diversa, cercando di scindere quella che è la componente tradizionale del folklore e quella tecnico-strumentale. La tecnica tradizionale e il bagaglio culturale di certe aree geografiche è tutt’altra cosa, entra in gioco un aspetto prettamente etnico (contesto rituale, religioso che è unicamente loro). Il Dilli Kaval turco, ad esempio, è un flauto di origini molto antiche suonato prevalentemente dai pastori con la respirazione circolare ed ha una voce interiore unica. Lo Xun è un flauto globulare (non ha una struttura a tubo aperto) cinese dalla storia ancor più antica, una specie di ocarina a forma d’uovo in argilla viola di Yixing: suono misterioso, rotondo, inquietante. Mi rapì quando ascoltai per la prima volta “Plum Blossom” di Yusef Lateef sullo storico Eastern Sound. Per quanto riguarda gli strumenti popolari sardi… il merito va a mia moglie che appunto è sarda! I flauti a becco detti Pipiolus e Sulittus, Benas e Launeddas sono gli aerofoni più importanti e originali della loro tradizione musicale. Mi sono innamorato di quei “suoni che ti entrano dentro” frequentando la Sardegna (sagre, feste religiose, costruttori di launeddas), una folgorazione, come se tramutassero l’anima di quel popolo in magiche vibrazioni ma ripeto, li suono (meglio ci soffio) alla mia maniera, sarebbe un a bestemmia dire Leonardi suona le launeddas!
Se questo disco fosse un libro e/o un film sarebbe?
Mi piacerebbe immaginarlo in un documentario del grandissimo Werner Herzog, magari “Cuore di vetro”, “Fata Morgana” o “La grande estasi dell’intagliatore Steiner”.
I tuoi cinque dischi della vita.
Sicuramente non i miei!
Roland Kirk – We Free Kings
John Coltrane – Expression
Albert Ayler – Live In Greenwich Village: The Complete Impulse Recordings
Julius Hemphill – Dogon A.D.
David S. Ware Quartets – Live In The World
… e se dovessi mettere altre due pepite non jazz:
Mozart – Requiem: Berliner Philharmoniker diretti da Herbert von Karajan
Jethro Tull – Stand Up