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SQUID, Cowards

Non manca il coraggio agli Squid di Cowards. Terzo album su Warp per una formazione che ha subito preso le distanze dal revival post-post-punk all’interno del quale era stata prontamente collocata, Cowards arriva dopo la gran bella sorpresa dell’esordio Bright Green Field, il cui titolo derivava da una storia di Anna Kavan, e la chiamata alla conferma di O Monolith. Anzi, Cowards è stato inciso ancor prima che O Monolith uscisse, a indicazione di un approccio più spontaneo di quanto si potrebbe presupporre. Alla produzione c’è sempre Dan Carey, alle prese anche con anticonvenzionali-affini come Black Country, New Road e i disciolti black midi, coadiuvato però stavolta dalla nostra Marta Salogni e da Grace Banks.

La passione per i riferimenti letterari è un altro chiodo che rimane fisso, tanto che Ollie Judge, vocalist e batterista, ha descritto l’insieme come una raccolta di fiabe oscure. Il filo conduttore è la malvagità di una società post-umana (ecco quando il prefisso è appropriato), al microscopio sotto luci artificiali, bluastre o rossastre che siano. Si parte nientemeno che con il cannibalismo di “Crispy Skin”, frutto della lettura del romanzo horror “Tender is the Flesh” (“Cadáver exquisito) di Agustina Bazterrica, poggiato su sonorità analogiche scintillanti e gustose influenzate da Philip Glass. Il resto non può che essere in discesa, con gli omicidi sotto i neon di Tokyo per mano del serial killer suprematista e piromane di “Building 650”, dal retrogusto The Fall, ispirata nel setting a “In the Miso Soup” di Ryu Murakami, oltre che dal film “Lost in Translation”. A ruota con i saliscendi patologici della voyeuristica “Blood On The Boulders”, sui crimini della famiglia Manson, e i fiati della title-track (prima canzone composta in assoluto), sulla gettonata sindrome di Stoccolma.

Si finisce per ascoltarlo spesso, Cowards, nel tentativo di inquadrarlo. Tentativo che fallisce nel bene (la naturale e inetichettabile complessità di cui sopra) e nel, ehm, male (la sensazione che il meglio debba ancora arrivare, persino in termini di personalità). Il quintetto di Brighton pennella un art-rock tra Radiohead, These New Puritans e clavicembali (le due “Fieldworks”) che assorbe folk, elettronica, jazz, psichedelia con raffinato appetito. Quasi ci si diverte – mentre ci si addentra in preistoriche caverne piene di ossa – con il groove funky in stile Gang Of Four della dinoccolata “Cro-Magnon Man”, per non parlare delle chitarre aggressive, dei synth, delle drum machine e degli archi del Ruisi Quartet di “Showtime!”, che occhieggia a Woody Allen e atterra nello spettacolo di ego e abusi di Hollywood. A chiudere il sipario, e assieme alla compagna di scuderia Clarissa Connelly, l’articolato avant-songwriting da camera di “Well Met (Fingers Through The Fence)”, incentrata sull’inevitabile crisi climatica e basata su di un arido immaginario di olocausto nucleare. La pelle, all’inizio croccantella, si screpola. Ogni campo verde brillante spazzato via.