SQUADRA OMEGA, Materia Oscura
Inizia con suoni lontani di trasmissioni satellitari il nuovo disco di Squadra Omega, qualcuno tenta di mettersi in contatto con altre creature mentre è in orbita anni luce lontano dalla Terra, poi un synth languido ci svela il panorama: oltre il buio ci sono nuovi pianeti da esplorare. Il basso porta un groove carico di belle memorie del periodo elettrico di Miles Davis mentre la batteria funge da propellente per salire su, nella suono-sfera. In sottofondo voci irriconoscibili comunicano forse le coordinate del viaggio. Questa è “Massa Mancante”, l’ottima traccia d’apertura del nuovo lp del collettivo aperto veneto.
Con “Mondo Brana” la navicella vira decisamente in territori west-coast, con una linea di basso di una classicità riconoscibile ma sempre magnetica (non sono così lontane nemmeno certe rotondità degli ultimi lavori dei Motorpsycho), un bell’interplay di chitarre che rimanda dritto dritto ai Grateful Dead, in un clima epico e malinconico al tempo stesso, che tocca ma non elettrizza come fa l’inizio del disco. Successivamente, verso il minuto quattro, entrano i synth di nuovo ad aprire mondi, ed il pezzo prende quota: il basso continua a fluttuare caldo e meditabondo, la batteria accompagna asciutta e minimale (che benedizione i batteristi che non vogliono strafare), e poi una melodia che è puro distillato di Canterbury sconfigge la gravità. L’ultima parte sembra deragliare verso un buco nero, si viene risucchiati in una sorta di entropia elettrica pericolosa ed avvolgente, il ritmo man mano si sfalda per lasciare spazio a una lunga teoria di comete. Clima molto coinvolgente, come un Big Bang fatto musica, poi di nuovo la materia (oscura) si rapprende e si riparte per una fuga verso il pianeta Gong, che termina in modo brusco. La navicella è scomparsa, o cos’altro è accaduto?
Con la terza traccia si entra in un’altra dimensione: si intitola in effetti “Le Oscillazioni Dell’Universo Giovane” e inizia subito in medias res con un bel caos di suoni in libertà, come se i sofisticati strumenti di navigazione dell’equipaggio fossero andati completamente in pappa, l’itinerario ora fosse completamente affidato al caso e dall’esterno giungessero suoni febbrili e palpitanti: Aphex Twin che remixa Bitches Brew? Mentre, come nella miglior musica, la domanda deve giocoforza restare senza risposta, dopo questa giungla galattica iniziale l’esplorazione giunge a un’oasi dove l’aria si fa ancora più rarefatta. Poi flauto e sassofono suonano un requiem per il mondo che fu, una preghiera che sa di abbandono e di perdita, siamo tra l’estasi rituale di certo kraut e i giocattoli africani di Don Cherry, il synth in sottofondo mantiene la linea di galleggiamento e si finisce in gloria con puntillismi che sanno di Terry Riley a dialogare con una chitarra acustica che ritorna a casa. Un disco di cui bisognava provare a fare la cronaca in diretta, tanto è denso e vivo, un vero e proprio inno alla gioia della musica, con le radici ben piantate in fertili riferimenti passati e gli occhi rivolti senza alcun timore verso il futuro. Lavoro riuscitissimo e molto psicoattivo, centro pieno per Squadra Omega.