Spring Blossoms – An Ecstatic Playlist by Gino Dal Soler
L’eterno fascino della “selecta”
Alcuni dei ricordi più belli della mia infanzia sono legati ai momenti trascorsi nel negozio di dischi di mio padre Andy, gestito con coraggio e passione in un piccolo comune della provincia di Caserta dal 1979 al 1998. L’immagine di lui, intento perennemente a registrare personali selezioni di brani da vinile a cassetta, rimane viva e indelebile. Una delle prime compilation concessami in dono racchiudeva una superba sequenza di pezzi di Caravan, Soft Machine, King Crimson, Pink Floyd, Emerson Lake & Palmer, Brian Auger, The Beatles, Perigeo, Pfm… fu una vera iniziazione a certe sonorità immortali, che tutt’ora amiamo più di qualsiasi altra cosa. Credo che la funzione di queste selezioni “home-made”, ben diverse dagli intenti banalmente commerciali di molte raccolte ufficiali, sia ancora quella di strumento valido e originale per l’approccio a musiche sconosciute, un punto di partenza per l’approfondimento di quel particolare artista, album o di un’etichetta discografica. Sono convinto che molti di voi siano fanaticamente attivi in questa pratica di compilazione, a volte tematica, ibrida per stili e correnti coinvolte, o compendio dei dischi delle band predilette. Da qualche anno ho intrapreso questo scambio rituale di “selecta immaginarie” con Gino Dal Soler, storico redattore di Blow Up, avido ed eclettico ascoltatore, ma con il cuore e la mente che navigano soprattutto verso lidi e galassie estatiche, drone minimalisti e architetture kraut-kosmische. “Meccaniche Celesti”, “Primavera Spleen”, “Juxebox For Tomorrow”, “Supersound”, “End Of The Year”, “Psychedelia Meets India”, sono solo alcuni nomi di queste fantomatiche selezioni, cesellate da Gino con cura ed impreziosite da artwork originali, regalate poi a pochi amici in cd dalla tiratura limitatissima. La sua ultima, “Spring Blossoms”, ci introduce nella freschezza di alcune eccellenti novità discografiche, il cui filo conduttore resta l’avanguardia elettronica dalle tinte più ascensionali e misticheggianti, un elogio a esploratori contemporanei della coscienza, senza per forza scomodare troppi riferimenti nostalgici ai corrieri del passato.
La compilation
C’è comunque lo spazio per i veterani, e dunque è Craig Leon ad aprire la strada. Il suo “Standing Crosswise In The Square”, tratto dal suo nuovo The Canon – Anthology Of Interplanetary Folk Music Vol. 2, è un pulsante movimento danzato dalle venature etniche, un vortice di tappeti siderali dall’atmosfera vagamente cinematografica, impreziosita da un’avvolgente perizia poliritmica. Non essendomi cimentato in un ascolto integrale del lavoro di Leon, posso ancora dirvi poco della sua fisionomia, ma la vibrazione di questo brano credo possa destare anche in voi una certa curiosità.
Pure un colosso dell’ambient-music come il norvegese Erik Wøllo, nome di punta nel catalogo della Projekt e intrepido collaboratore di Steve Roach, si conferma sulle scene con Sources (Early Works 1986-1992). Ne fa parte “Under Water”, che trasmette la sensazione di fluttuare tra caldo liquido amniotico e nordico oceano universale. Il pulsing del synth vive di una freddezza tipicamente scandinava, ma rimane elegante, colorato da trilli, fruscii e sibili di organismi d’erba corallina.
Non delude neanche la sempre affascinante Anna Homler, artista dalla solida esperienza interdisciplinare, da sempre agile nel muoversi lungo i territori d’espressione e significazione più inconsueti. Come nel progetto a nome Voices Of Kwhan (in compagnia di Mark “Pylon King” Davies) o nel disco The Many Moods Of Bread And Shed del 2012 con la violinista Sylvia Hallett, dove rimane comunque la voce l’elemento cardine della sua vocazione sperimentale, quell’invocazione magica intorno alla quale ruota il senso prioritario della sua ricerca. Ne è testimonianza ancora una volta il recente Deliquium In C, pubblicato dalla svizzera Präsens Editionen, che racchiude brani tratti dalle sue collaborazioni più importanti. Tra questi l’incantevole climax di “O’sa Va’Ya”, in tandem con Alessio Capovilla: un bordone infinito di synth che sembra un harmonium dilatato e filtrato timbricamente, e immerso nei richiami da foresta pagana dei flauti. La voce cerimoniale di Anna spicca il volo, cattura gli attimi di un dialogo intimo e solare con il divino, evocando una spiritualità senza cliché che l’accosta ad altre muse del canto come Fovea Hex e Fursaxa, o Alison O’Donnell nelle pagine più eteree degli United Bible Studies.
Con l’ambizioso All Time Present (su No Quarter), Chris Forsyth si conferma chitarrista rock di primissimo ordine, sempre coadiuvato dalla fidata Solar Motel Band. Il brano “(Livin’On) Cubist Time” lo vede impegnato in un gioco ciclico di sublimi accordi armonici; sono brillanti schegge caricate in loop, che si rincorrono in una fuga elastica di sussurri angelici e sax vibrati. Chris si muove ancora nel solco di un’echo-space-guitar che ricorda le invenzioni per chitarra elettrica di Manuel Gottsching o le traversate spaziali di A.R. & Machines, ma il suo tocco stellare, in questo “tempo cubista”, è ancora coinvolgente.
Rispetto al precedente Born Again In The Voltage, Caterina Barbieri opta in modo deciso per sonorità più aspre e taglienti per il suo nuovo, lucentissimo, Ecstatic Computation (Editions Mego). La scelta non è sofferta, ma credo rispecchi con lucidità il proposito di estendere la creatività verso forme di allucinazioni temporali sempre più profonde, in quel sottile equilibrio tra estasi e trance. “Fantas”, suo epico cavallo di battaglia nelle performance dal vivo, è sicuramente il brano più estremo di questa “Spring Blossoms”. È puro astral trip che fa schizzare letteralmente il cervello, “puro sballo”, avrebbe semplicemente commentato Julian Cope nel suo celebre “Krautrocksampler”. I synth modulari della Barbieri vivono qui di increspature irruenti, di una vigorosa aggressività che giustifica però l’obiettivo di base. Le tinte del brano sono cupe e profonde, ma lasciano fluttuare in nebulose le polveri cromatiche. Da vera faraona-officiante, Caterina miscela al meglio tutti gli ingredienti: un micidiale pulsing ipnotico tra Tangerine Dream e Michael Bundt e un semplice tema melodico ripetuto in più fasi.
Meno tempestosi sono gli orizzonti musicali di Sarah Davachi, che torna a deliziarci con l’ennesima grande prova compositiva. Con Pale Bloom (Superior Viaduct) la canadese ci svela il suo lato più lirico e romantico, riscoprendo l’energia segreta del suo primo strumento, il pianoforte, per un’opera radiosa di minimalismo silenzioso e ruminazione poetica (dalla sua pagina Bandcamp). “Perfumes III” è il brano spartiacque delle sua tempra creativa: troviamo ancora il solito organo vibrato con le variazioni che sfumano dolcemente e che la collegano al minimalismo di La Monte Young ed Eliane Radigue, ma appaiono sottili accenti e accordi di piano, quasi abbozzati come leggere interferenze senza peso. L’elemento di novità rimane forse proprio la volontà di questo procedere lento, con calma temperata, da satori supremo che può riportarci al tempo sospeso e diluito di Thursday Afternoon di Brian Eno. Per quanto solenne e onirico, il sentiero di Sarah rimane comunque e sempre luminoso, pacifico e raffinato.
Con la musica dei Light Conductor, Teleplasmiste e Celestial Trax ci immergiamo invece negli abbracci cosmici più ipnotici e avvolgenti. Light Conductor è la nuova uscita per la band canadese della Constellation, ed è felice scoperta poiché il duo formato da Stephen Ramsay e Jace Lasek consolida, con l’album d’esordio Sequence One, una propria convincente sintesi di processi sonori modulari dal sapore crepuscolare e notturno. Rappresentativo dei loro soggiorni a cavallo tra drone psichedelici e kosmische musik, è sicuramente il brano “A Bright Resemblance (Abridged)”: il suo morbido flusso è un canale luminoso di pura beatitudine, composto da un sofficissimo tema minimal dal pulsare “puntillistico”, che si perde nell’infinito di folgoranti espansioni retinali.
Dei Teleplasmiste avevamo già parlato a proposito di Frequency Is The New Ecstasy del 2017. Ora, con il nuovo anno, la band sforna non solo l’album-tape Science Religion, ma anche un piccolo gioiello come “Song For Ingo Swann”, brano incluso in Spaciousness, raccolta – curata dalla londinese Lo Recordings – che include anche nomi come Abul Mogard e Laraaji. “La canzone per Ingo Swann” è quanto di più vicino ci possa essere ad atmosfere da “Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo”, segnali trasmittenti da una piattaforma di controllo, con efficaci synth-drone dagli algoritmi sinusoidali e a spirale, con un crescendo ascensionale da decollo iperboreo che non fa rimpiangere il miglior Michael Stearns, quello del suntuoso Planet Unfolding.
“In The End We Ascend” è invece il brano di chiusura di Serpent Power, secondo album di Celestial Trax, sigla dietro alla quale si cela l’estro del compositore finlandese Joni Judén, che giunge a plasmare nuove musiche organiche e dalle trame inebrianti, dopo aver speso circa un anno a viaggiare tra gli sterminati paesaggi finlandesi. Il titolo suggerisce già tutto: ascensione oltre la stratosfera, il vuoto di un drone celestiale che evoca il quadro di un mondo naturale interiorizzato. Nell’etereo manto dei synth, tra chitarre trattate e crystal bowls, Judén compone un’ode di calma e bellezza, di beatitudine e speranza.
Membro del trio Forma e collaboratore di Christina Vantzou nel suo bellissimo 4 (del 2018), con il nuovo Erg Herbe, l’americano John Also Bennett (Jab) mette a punto un album indubbiamente evocativo per la Shelter Press, la stessa etichetta che qualche anno fa dava alle stampe un lavoro come Musique Hydromantique di Tomoko Sauvage. La formula sonora sembra tradurre fedelmente quelle teorie del “misticismo del suono” di Hazrat Inayat Khan, con quel giusto mix tra suono archetipico del flauto ed elettronica. Quelle di Jab sono ancora images of flutes in natures, volendo citare il percorso del migliore Joel Vandroogenbroeck, ma ci ricordano anche le meditazioni di Open Like A Flute di Ariel Kalma. Nel brano “Chanterai Por Mon Coraige”, derivato dalla canzone trobadorica del Quattordicesimo Secolo di Guiot De Dijon, l’armonia è data dall’incrocio di due singole improvvisazioni per dizi (flauto di bambù cinese) riverberato, successivamente imbevute di bordoni del synth. C’è sicuramente un punto di contatto con il minimalismo di Jon Gibson, per quanto Bennett citi anche La Monte Young, Laurie Spiegel o Pauline Anna Strom come sue influenze importanti.
“When I Think Of Her” di Park Jiha, è forse il pezzo più evocativo di questa selezione, nonché il mio preferito. Non più slanci nel cielo, ma questo incontro tra Oriente e Occidente trasuda profonda passionalità terrena, con il saenghwang coreano (organo a bocca) che si accosta come per miracolo a quel tepore risonante in tutto il Mediterraneo, malinconico come nei migliori Madredeus, con una classicità non canonica che riporta agli amati Clogs o a un certo fare trobadorico alla Dorothy Carter tramite il suono del yanggeum (dulcimer coreano). Questo anche grazie alla voce di Park Jiha, che fa qui librare il suo canto caldo e solare come un fiore dal polline benefico nel vento. Forse il suo esordio Communion del 2016 (ristampato da Glitterbeat nel 2018) non aveva convinto del tutto molti ascoltatori, dividendo la critica tra chi la osannava e chi aveva l’impressione di una non totale realizzazione espressiva. Il suo nuovo album Philos (sempre Glitterbeat), però, sempre ai confini di un linguaggio binario tra tradizione coreana e musica contemporanea, meriterà un ascolto più che superficiale per comprendere realmente il talento e l’evoluzione di questa artista misteriosa.
E dopo tanto peregrinare, l’elegia o meglio il ritorno definitivo sulla Terra. Di questa nostra lunga psico-geografia tra le “fioriture primaverili” rimangono i frammenti, ed è “Caduta” di Stefano Pilia a fissarne il pieno ricordo. La dimensione sinfonica di questo brano, tratto dal suo nuovo disco, “In Girum Imus Nocte Et Consumimur Igni”, in uscita per la milanese Die Schachtel, è l’ideale riflessione finale su incertezze di natura iperbolica, uno spleen sofferto ed epico da sequenza cinematografica. La chitarra solenne di Pilia traduce in suono gli attimi guizzanti del proprio Kairòs; intima ed evocativa come sempre, parla ancora una lingua che discorre di “healing memories”e fiducia in un futuro di luce.
Playlist
Craig Leon – Standing Crosswise In The Square
Chris Forsyth – (Livin’On) Cubist Time
Caterina Barbieri – Fantas
Light Conductor – A Bright Resemblance (Abridged)
Erik Wøllo – Under Water
Teleplasmiste – Song For Ingo Swann
Celestial Trax – In The End We Ascend
Anna Homler & Alessio Capovilla – O’Sa Va’Ya
Sarah Davachi – Perfumes III
Jab – Chanterai Por Mon Coraige
Park Jiha – When I Think Of Her
Stefano Pilia – Caduta