SPRAIN, The Lamb As Effigy
Ma cos’è questo disco? Effettivamente è più facile partire da tutto quello che non è. Non è un ascolto facile e men che meno accessibile, astenersi perditempo. Non è un disco lineare, con le sue rifrazioni e frammentazioni che si affastellano all’orizzonte con una densità agghiacciante. Non è una sorpresa, contando che la band in questione aveva già fatto parlare di sé con il debutto del 2020. Non è una produzione per deboli di cuore e per amanti del monoteismo stilistico. Non è per nulla un disco corto, non consigliato per ascoltatori dalla soglia attentiva limitata.
Bene, ora che abbiamo rotto gli indugi proviamo a ribaltare la prospettiva e ad inquadrare dalla parte giusta questo The Lamb As Effigy. È un disco cerebrale e fortemente divisivo, come solo poche altre band hanno saputo essere negli ultimi lustri. Qualcosa di assimilabile alle migliori performance degli Swans o a una versione dei Daughters preoccupantemente ancora più dark. È la rivincita della divergenza, dell’iper-aggressività e dell’espressionismo più denso. È il trionfo dell’accelerazionismo musicale privo di qualsiasi freno e remora, la gargantuesca rappresentazione di cosa significhi non porsi alcun tipo di limite. Per cercare di focalizzare al meglio questo concetto si può prendere come primo reperto la centrale “Margin For Error”, una spirale senza fondo di quasi 25 minuti, una follia controllata, segnata da un organo glaciale e un crescendo folle. Ogni traccia è un microcosmo così denso da risultare sempre sul punto di strabordare (e a volte lo fa pure). Qua e là si ritrovano sfumature della Santissima Trinità dell’art rock moderno (Squid – Black Country, New Road – Black Midi, ça va sans dire), mescolate con piogge acide di noise che aumentano non poco il livello di tensione nella tracklist (come nel caso di “Privilege Of Being” e “Reiterations”). L’inchiostro si spreca tra le pagine degli Sprain, e risulta anche estremamente difficile riassumere tutte le infinite prospettive di un lavoro quasi cubista nel suo essere innaturale. Multipli riascolti donano nuovi punti di vista, nuovi “play” alimentano rinnovate elucubrazioni. Una sola fruizione sarebbe quasi superflua, The Lamb As Effigy necessita una parafrasi completa che prenda in esame suoni, parole e sensazioni. È tutto sfiancante e sfidante, ma nel miglior senso possibile. L’ultimo fendente arriva con la conclusiva “God, Or Whatever You Call It”, un’altra mezz’oretta scarsa di agguati sonori sotto forma di pièce teatrale, l’ultimo psicotico palcoscenico per l’arte bizzarra degli Sprain. Prendere o lasciare.
Quindi, cos’è questo disco? Semplicemente una uscita che troveremo in molte liste di fine anno. Siete stati avvertiti.
P.S.: come un fulmine a ciel sereno ad inizio settimana è arrivata l’improvvisa news dello scioglimento della band. Gli Sprain, come la più bella delle comete, hanno brevemente illuminato il cielo del panorama musicale con due uscite che rimarranno negli annali. Un altro motivo per risentirli con ancora più amore. Ad maiora.