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A SPHERE OF SIMPLE GREEN, With An Oblique Glance

I casi strani della vita. Quest’estate sono stato tre giorni a Cagliari prima di andare a Sant’Anna Arresi per il festival Ai confini tra Sardegna e Jazz. Ho la passione per i campanelli dei posti che visito, e quindi una mattina  mi sono messo a fare fotografie, in una bellissima zona della città, dei sopracitati campanelli. Tornato poi nel continente, sfogliando le foto, ho scoperto che ero passato proprio sotto casa di Simon Balestrazzi, parmigiano trapiantato nell’isola da una vita oramai, e autore assieme a Silvia Corda al piano ed Adriano Orrù al contrabbasso di questo With An Oblique Glance.

Un suono trattenuto, circospetto, denso, abitato. Vivono ombre,  indefinibili presenze, in queste che paiono in tutto e per tutto costruzioni improvvisate in un ambiente ostile (“Unfriendly Environment”). “An Extremely Narrow Path”, e subito ci troviamo in medias res, alle prese con livide atmosfere da incubo minimalista, con il contrabbasso suonato con l’archetto ad accompagnarci per una via stretta e in salita, mentre le percussioni tendono agguati. Suggestivo ed efficace. A seguire, gli otto minuti di apparizioni nella nebbia di “Something I Saw In The Mist”, rimbrotti di corde e percussioni, intrusioni digitali, ma il clima resta interlocutorio, senza catturare troppo l’attenzione. “My Tears Didn’t Flow” si mantiene sulle stesse coordinate, preparando una minaccia che non si manifesta mai, e proprio in questa tensione che non esplode sta probabilmente il fulcro del disco, capace di sedurre per le timbriche messe in scena (sembra di assistere in un qualche modo a un’opera di teatro sonoro), varie e ben calibrate , ma non sempre a dire il vero capace di catturare costantemente l’attenzione. Del resto è probabile che sia un errore di prospettiva (“Error Of Perspective”, la quinta, intensa traccia) cercare di dare notizia di suoni che fuggono qualsiasi intenzione narrativa e semplicemente si manifestano, scuri e in qualche maniera gravi. Una sorta di white noise da camera, affacciato sul bordo del nulla e semiacustico, con rintocchi sparsi di pianoforte, passaggi novecenteschi, paludi di ambient limacciosa e intimamente cattiva. Sembra sempre che qualcosa debba accadere, oppure è la nostra incapacità di stare con i nostri fantasmi e di consegnarci – senza dibatterci inutilmente – agli inferi che ci aspettano. Sta di fatto che spesso questo qualcosa non si mostra, ed in questa aura enigmatica risiede comunque il fascino di un disco che sa offrire visioni, anche se a volte non tutto pare bene a fuoco;  le comunicazioni via radio di “Reality Flickers Ominously”, ad esempio, si perdono in un’impro non così pregnante e alla fine (“Even Narrower Path”) il sentiero si fa ancora più stretto, come in un’escursione in apnea nelle profondità di un suono roccioso e terrigno. Quaranta minuti con pochi bagliori, indagini sulla bellezza del nero, anche se nel titolo si parla di un verde non meglio precisato (forse è un riferimento a una poesia di Emily Dickinson): una ricognizione delle dark places della terra di nessuno al confine tra impro e noise, con un che di zen nell’approccio (l’afflato riduzionista di tutti i pezzi, i suoni scabri, un’atmosfera a metà tra sala autoptica e rituale voodoo), una scelta di soluzioni che poteva essere più varia, ma la capacità comunque (“But My Tears Didn’t Flow”) di stare in buon equilibrio tra cinema e speleologia, senza lasciare campo libero al caos e alle sue valanghe. Come un viaggio dantesco dai toni kubrickiani oppure una sonorizzazione di una discesa negli abissi marini dove la luce giunge ogni 1000 anni. Disco che non accoglie subito l’ascoltatore, ma che saprà ripagare chi avrà un minimo di pazienza nell’accostarsi.

E infine uscimmo a riveder le stelle.