Spectral Chimeras: Aidan Baker, Golem Mecanique, Phil Maguire, Primož Bončina, 2/6/2022
Lubiana, Klub Gromka.
That’s the spirit, mi dice la ragazza “in cassa” al Gromka mentre mi timbra il polso e parliamo di questa serata organizzata di tasca propria da Cloudchamber Recordings, in occasione dell’uscita di The Evelyn Tables (tra i più antichi esempi di “preparazioni anatomiche”, “mappe” su legno delle vene, delle arterie e dei nervi di un corpo umano) di Aidan Baker. That’s the spirit, penso, mentre mi trovo di nuovo al Metelkova, il centro sociale di Lubiana, che non so da quanto tempo non vedevo a causa di ciò che sappiamo tutti. Una volta tanto lo osservo sotto l’ultima luce utile del sole e penso che sia meraviglioso coi suoi graffiti, i suoi ruderi, le sue giostre senza senso e la sua popolazione.
Chitarra ed effetti, inizia nel buio più totale l’uomo dietro a Cloudchamber, lo sloveno Primož Bončina: come sottofondo prima c’erano gli Earth (periodo su Southern Lord) e lui, look tipo fan degli Hellacopters, non si discosta molto da quel mondo. Il suo Altars dell’anno scorso, pur non re-inventando il genere, è un buon disco drone-doom, solenne e tragico come ce l’aspetteremmo, per questo avrei voluto di più da questo suo live.
Tocca poi a Phil Maguire, drone analogico noiosissimo. Non c’è un’idea che sia una dietro al suo set, e non c’entra la monocromia del linguaggio che usa.
È la volta di Karen Jebane, in arte Golem Mecanique, del cui disco su Ideologic Organ abbiamo parlato in termini molto lusinghieri, secondo me con buone ragioni. Sul tavolo è appoggiata la BAB (Boîte à Bourdons), strumento ideato e fabbricato nel 2011 dal liutaio francese Léo Maurel: si tratta sostanzialmente di una macchina per i drone e il suo suono è originale e soprannaturale. Lei sa di avere in mano un oggetto particolare e stende ogni bourdon più che può, dando al pubblico la possibilità di assaggiarne il sapore corposo e inusuale. Avrei voluto anche in questo caso di più, ma perché si vede proprio il potenziale.
Chiude Aidan Baker, che qui non ha alcun bisogno di presentazioni. Guardato dal fondo della sala da Leah Buckareff, sua compagna nel duo Nadja, ci prende per mano e ci fa naufragare contenti. Se c’è qualcuno che è riconoscibile nel mucchio informe di chitarristi-che-piegano-il-loro-strumento-in-chiave-ambient, questo qualcuno è lui: fragile, onirico, bello senza essere stucchevole. Oggi mostra anche una confidenza incredibile col suo equipaggiamento, che muove come nessun altro, perché del resto è chiaro come lo conosca in un modo che è solo suo, una delle migliori cose che ti possono accadere quando sei un musicista underground. Agisce in quella zona di confine tra post-rock e ambient senza annoiare un secondo, lasciandoci smarrire in quel labirinto di specchi da cui tira fuori i suoi (troppi) dischi.
Me ne vado via contento sotto una pioggia leggera, perdendomi come sempre un paio di volte.