SOVIET SOVIET, Fate
Soviet Soviet già dal nome (doppio e grigio brezneviano) vuol dire post-punk, nella forma quasi classica del trio chitarra-basso-batteria. Al basso Simon Gallup (che quando canta sembra una specie di Brett Anderson adolescente), alla chitarra Robert Smith (congelato nel 1981/82) e alla batteria Lawrence Tolhurst in anfetamine. I Soviet Soviet, rispetto a chi sapete voi (da qualche parte dovevo pur partire), sono più focalizzati su pezzi nervosi, veloci e taglienti, il che giustifica un magari minimo collegamento col filone death rock. Si sono già fatti conoscere in giro con un paio di ep e Summer, Jesus (2011), giocando molto su di un suono più o meno premeditato, ma di sicuro ben definito, e sulla botta che hanno i pezzi. Per quanto mi riguarda, potrei sentire questo tipo di canzoni un mese di fila senza preoccuparmi di variare la dieta, quindi non so dire bene quanto Fate sia meglio dei brani precedenti (alcuni eccelsi) del gruppo o quanto in effetti i Soviet Soviet abbiano allargato il loro spettro sonoro, cioè quanto sappiano modificare la formula di modo da non stancare troppo, questo semplicemente perché io non mi annoio con loro e tutto sommato nemmeno il resto del mondo dovrebbe stufarsi. L’unica vera pecca, come tutti sanno, è che sono dieci/quindici anni che il revival del loro genere è diventato sottogenere ineliminabile, perennemente sugli scaffali immaginari della rete e davvero fastidioso. Certo però che se ogni anno saltassero fuori loro e i Beastmilk, vorrei proprio vedere chi avrebbe qualcosa da ridire. Da Pesaro come i Be Forest, altra gente che gioca col Commodore 64 e non sorride nelle foto.