SONNY SIMMONS & MOKSHA SAMNYASIN, Nomadic
Ho dovuto fare delle ricerche sul web per sapere chi fosse costui. Ho scoperto, per esempio, che non ha avuto vita facile (senza fissa dimora per molti anni), che ha incominciato da giovane, nei primi Sessanta, a suonare il sassofono, pubblicando pure con Don Cherry, e che è passato per un’etichetta fondamentale per il jazz americano, la ESP-Disk (Albert Ayler, Ornette Coleman, Sun Ra, The Fugs). Per l’occasione si fa aiutare da un manipolo di musicisti transalpini che si cimentano con basso, batteria e sitar, che adottano il nome di Moksha Samnyasin, e devo ammettere che quel vecchio fuoco artistico sembra non averlo mai abbandonato. L’album è diviso in quattro movimenti, la traccia di apertura parte con un basso minaccioso e le note del sitar che si intersecano senza colpo ferire (pensate a La Piramide Di Sangue, tanto per fare un esempio a noi il più vicino possibile), mentre il sax di Rollins contrappunta fiero ed intimamente disperato. La sua voce contraddistingue poi la parte finale della melodica “We Are Entering The Place Of That”, mentre nella successiva “I Put It In A Dark…” sembra di sentire molto nitide le ritmiche ossessive e sciamaniche degli Om di “God Is Good”, medesimo passo suadente e al contempo inesorabile, con la conclusione che ha una trama dissonante opera del solo Simmons. Chiude la tribale e notturna “When It Comes, I Don’t Fight It”, con quell’incedere felino che diventa sempre più poetico. Quasi dimenticavo: pubblica la finlandese Svart Records, che di norma si occupa di cose diverse da questa: Oranssi Pazuzu, Beastmilk, Callisto, Circle, Sabbath Assembly, tra gli altri. Converrete che il mondo è bello perché è a volte imprevedibile, no?