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SONAR W. DAVID TORN, Tranceportation Vol​.​1

Suoni si affollano, lenti come una colonia di zingari che in carovana si infilano in un dedalo inestricabile. Ecco vibrare l’intero palazzo di Cnosso: le sue stanze divengono luoghi di rifrazione, di moltiplicazione di cellule musicali che, spargendosi libere, invadono gli spazi e li completano. Visioni brulicanti che si rivelano agli occhi senza l’ausilio di particolari “sostanze”:  è “Labyrinth”, straniante grumo di suoni gelatinosi che apre il disco, intrico di elastici che si allungano e si ritraggono sotto la spinta di un vento caldo e costante. Mi trovo tra i magneti dei diffusori questo Tranceportation Vol.1, album di fine 2019 dei Sonar con David Torn, ospite  d’eccezione nonché mito della chitarra avant e produttore tra i più possenti degli ultimi decenni, vantando un paio di dischi usciti per ECM e collaborazioni con nomi prestigiosi quali John Zorn, Jeff Beck, Tony Levin, Bill Bruford, David Sylvian, Ravi Shankar, David Bowie…

Il rapporto tra il gruppo svizzero e lo statunitense inizia nel 2018 con Vortex (RareNoise), in cui Torn veste i panni di produttore e la sua chitarra compare come un’aggiunta miracolosa ad una pastura già completa di suoni ondivaghi e spaziali. La scintilla scoccata in questo frangente conduce presto la joint venture ad un livello decisamente più fruttuoso: ad appena un anno di distanza arriva la pubblicazione della prima parte di una recording session durata cinque giorni, che ha generato un totale di 80 minuti di musica e da cui è tratto quest’ultimo lavoro. Rispetto al precedente incontro la composizione si fa più precisa, contemplando svariate parti di solida scrittura e nicchie strutturate in continui ribaltamenti ritmici ostinati e asfissianti, appositamente concepite per ospitare la sei corde magmatica di Torn.

Gli ambienti nei quali si viene trasportati ricordano molto quella frangia “progressiva” tipica degli anni Novanta, in cui una certa poetica del rigore matematico si fondeva alla poiesi improvvisativa per creare diversi “gioielli” dall’essenza alchemica: lo stesso tipo di essenza che, per tanti versi, troviamo in questo disco. Penso a quella memorabile terza rigenerazione nella storia dei King Crimson, in cui il genio di Fripp arrotolava in gomitoli inestricabili i suoi arpeggi, incollandoli col mastice alle monumentali linee di basso e batteria; ma anche allo space rock degli Ozric Tentacles e a un certo krautrock, forse per l’approccio ruvido che, nonostante l’evidente maturità raggiunta in questa quinta fatica, il gruppo mantiene.

Il lavoro di Stephan Thelen (chitarra), Bernhard Wagner (chitarra), Christian Kuntner (basso), Manuel Pasquinelli (batteria, percussioni) è un coacervo di reminescenze psych che talvolta strabordano nel jazz minimale contemporaneo, fino a trasformare il tutto in flusso originale, duttile e multiforme. Lo stesso Thelen, nel parlare del progetto Tranceportation, si serve spesso dell’analogia coniata con acutezza dallo scrittore Sid Smith per il linguaggio proprio della band, cioè il  gusto dimostrato per le atmosfere fobiche e ossessive accostato alle geometrie distorte e agli inganni prospettici del maestro incisore olandese Maurits Cornelis Escher. L’ascoltatore non può non rendersi conto delle continue metamorfosi dei suoni, un intrecciarsi di rifrangenze spiraliformi. Illusioni e distorsioni sembrano giocare insieme per disarticolare la fruizione dell’opera nella sua totalità. Come un’esplosione di frammenti, ecco così apparire un caleidoscopio satinato e traslucido, dalle tinte indefinite, eternamente in movimento e terribilmente affascinante.