SON LUX, Remedy
Quanto reggerà questa ritrovata sensibilità politica post elezioni a stelle e strisce tra musicisti non sospetti non è dato sapere. Sta di fatto che anche i Son Lux si accodano al movimento e pubbicano questo ep i cui proventi andranno a un’organizzazione non profit dedicata alla difesa dei diritti umani.
Remedy non si discosta troppo dall’ultimo lavoro del terzetto (in passato one man band del solo Ryan Lott), almeno da un punto di vista strettamente sonoro. Ciò che cambia sono intenzioni e testi, una sorta di lamentatio intima sul dover affrontare un clima di spaesamento politico/esistenziale, con finale d’esortazione a un passaggio dal personale al collettivo. Suonerà un po’ naive detto così, ma funziona; vuoi per un’accoratezza palpabile, vuoi per l’aver creato un contraltare idoneo al discorso.
La prima traccia, “Dangerous”, ha un impatto ansiogeno con un orizzonte fratturato e decisamente minaccioso: forse il brano dove l’armamentario a cui ci hanno abituato i Son Lux viene sparato con più vigore. Sleghi math, ombrosità elettroniche, scorie classiche, bassi intimidatori e manipolazioni aliene di strumenti acustici si rincorrono in dinamiche frammentate, tenuti insieme dall’afflato melodico di Lott, che prende una direzione sempre più (neo) soul, à la James Blake per intenderci, soprattutto nelle due tracce successive, meno esagitate ma più stranianti, tendenti a un’essenzialità che trova il culmine nell’ultimo brano. La title-track, momento conclusivo dell’ep, costruita su rullante e coro di 300 persone, nella sua estrema sobrietà è una chiara metafora del ritrovamento di un punto fermo, sgombrato dai detriti e dal quale ripartire collettivamente “to find a remedy”.
Meno intricato rispetto ai lavori precedenti, Remedy ne guadagna in compiutezza e ci mostra una band in ottima forma.