SOLSTICE, White Horse Hill
Se c’è un gruppo che nel doom può considerarsi di culto, quello sono i Solstice. I loro connazionali, e coevi, Paradise Lost, Anathema, My Dying Bride e Cathedral hanno raggiunto il successo mondiale, loro invece sono rimasti una band amata alla follia dai seguaci del genere, ma spesso ignorata dal grande pubblico. Se parliamo di sonorità tradizionali, però, sono sempre stati un punto di riferimento, un faro nella notte, in anni in cui questo stile non godeva di particolare attenzione da parte dei media, tutto ciò grazie a due grandi dischi come Lamentations e soprattutto New Dark Age, che hanno saputo conquistare il cuore dei fan grazie ad armonie efficaci e a riff pesanti e memorabili.
Fa abbastanza ridere pensare che dietro tutte queste melodie impeccabili ci sia Rich Walker, che qualcuno si ricorderà come Rich Militia dietro al microfono dei Sore Throat, uno dei colossi dell’estremismo sonoro e del rumore (ma se pensiamo a Lee Dorrian, il suo non è un caso così isolato). Sono passati dieci anni dal loro ultimo full length e in parte l’attesa era già stata rotta dagli ep Death’s Crown Is Victory e da To Sol A Thane, dove erano presenti molte tracce di questo disco in versione demo. L’epicità straripante che da sempre contraddistingue i Solstice ha preso il sopravvento sulla componente doom e di quest’ultimo genere non è rimasto quasi più nulla. Siamo difronte a un epic metal maestoso, che mantiene una grande personalità e che qui suona anche molto “inglese”: le armonie sono molto celtiche e fanno venire in mente le scogliere che danno sull’oceano, col cielo plumbeo e il mare in tempesta. La produzione è veramente ottima e i suoni sono incredibili (questo è sempre stato un grande punto di forza del gruppo, qui viene riconfermato alla grande). Anche dal punto di vista compositivo non ci sono obiezioni da fare, canzoni come “To Sol A Thane”, la title-track e anche pezzi più calmi come “For All Days, And For None” ci dimostrano quanto questa band sia ancora in grado di scrivere dei brani carichi di pathos. Il punto debole qui sta nel cantato. Uno dei grandi problemi creati dai numerosi cambi di formazione affrontati dai Solstice è stato proprio quello della voce, che ha determinato una sorta di discontinuità nelle loro uscite. Paul Kearns è bravo ma non regge il confronto con chi c’era nei lavori precedenti, penso a gente come Simon Matravers e Morris Ingram, di gran lunga più personali ed espressivi. Questo fattore pesa molto sul risultato complessivo, senza per forza compromettere il tutto.
White Horse Hill fa sicuramente la felicità di chi da anni aspettava un terzo album di Walker e soci e di chi ama le sonorità epiche ma non si accontenta del primo gruppo con borchie e acuti a caso che passa. I Solstice, anche con Kearns, sono e restano comunque grandissimi: chi vuole conoscere a fondo il doom, li deve ascoltare, anche ora che doom non lo sono quasi più. Ci vuole però qualcosa di più dal punto di vista del cantato per eguagliare Lamentations e New Dark Age.