SoloMacello Fest 2017 (Deafheaven, Trap Them, Ghost Bath, La Fin, Calvario)

Milano, Circolo Magnolia, mercoledì 21 giugno 2017. Le foto sono sempre di Antonio Cassella.

Dopo un paio d’anni di sperimentazioni il Solo Macello Fest (nato dall’evoluzione del glorioso Mi Odi) torna alla sua forma originaria di un’unica giornata.
C’è stata l’importante defezione dei Crippled Black Phoenix, che hanno all’improvviso annullato il loro tour, ma la buona volontà degli organizzatori ha permesso di far arrivare in porto l’ormai rituale appuntamento metal underground dell’estate milanese.
Cinque gruppi, due nostrani, tre statunitensi, un solo palco, quello più piccolo ma ben adatto alle situazioni proposte durante la giornata, e la familiare cornice del Circolo Magnolia con i suoi spazi forse anche troppo generosi per l’occasione. Il caldo farebbe pensare ai tropici, gli aerei – che atterrano con regolarità a qualche chilometro di distanza – riportano la mente a Linate.

Calvario

L’esibizione dei Calvario è piuttosto breve e forse paga lo scotto dell’ora; complice il giorno infrasettimanale e la cena, il grosso del pubblico che animerà la serata non è ancora sul posto mentre i quattro si esibiscono. Il loro blackened hardcore va dritto al punto con formule ritmiche semplici e canzoni dirette, peccato per il contesto climatico atroce.

La Fin

I La Fin sono la chicca che non ti aspetti. A un primo sguardo, con tre chitarre (rispettivamente a sei, sette e otto corde) sul palco, il sospetto di aver a che fare con una gimmick band è forte, ma già dopo pochi secondi i dubbi vengono spazzati via. La qualità delle composizioni, la cura degli arrangiamenti e la solidità dell’esecuzione sono un biglietto da visita che il gruppo milanese sfoggia alternando sezioni djent e ritmiche math o progressive a momenti di grande respiro e di grande apertura melodica. Il tenore rimane alto per tutto il tempo e non si può far altro se non aspettare il primo lp.

Ghost Bath

Alle nove la temperatura inizia a scendere e sul palco salgono i Ghost Bath. Non ho mai amato la loro declinazione post black metal o indie black metal o come si vuol chiamare la nuova tendenza del black metal americano, così come non mi è mai stato chiaro quanto fossero vere le dicerie su atteggiamenti e attitudini del gruppo. Poco importa, quel che resta è che, purtroppo, lo show regge a metà. Se da un lato è innegabile che i Ghost Bath propongano un set di canzoni coerenti con il loro stile, dall’altro va detto che l’ispirarsi a punti di riferimento come Agalloch e gli stessi Deafheaven, a volte, straripa nell’esagerazione e nel sovraccarico, producendo spesso un effetto quasi kitsch. L’utilizzo, legittimo ma opinabile, di moniker old school con tanto di caratteri illeggibili e un accenno di corpse paint trasmette una strana sensazione durante la loro performance: stanno facendo sul serio o ci stanno prendendo in giro?

Trap Them

Arriva il turno dei Trap Them e in men che non si dica si cambia atmosfera, passando da un estremo all’altro. Niente fronzoli, niente headbanging sincronizzato, niente di niente, solo assalto sonoro e rabbia hardcore nuda e cruda. Il pubblico reagisce alla grande e finalmente la serata decolla senza mezzi termini. Una canzone dietro l’altra senza sosta, con Ryan McKenney sugli scudi per tutto lo spettacolo, a incarnare quasi da solo la miscela di Black Flag ed Entombed che da sempre caratterizza il sound bastardo degli statunitensi. Si capisce che l’atmosfera all’aperto, le luci (pur sapientemente tenute al minimo indispensabile) e le transenne sotto il palco vanno strette al frontman, che cerca costantemente di coinvolgere  in maniera più diretta e fisica le prime file. Dopo tre quarti d’ora di furia e adrenalina, arriva l’ultimo pezzo, un’ultima sassata in faccia prima di chiamare sul palco i Deafheaven.

Deafheaven

Per essere sincero, era da molto che attendevo questo momento. Mi ero perso il loro concerto del 2012, quando arrivarono in Europa di spalla ai Russian Circles e ricevetti pareri contrastanti da chi c’era. La contraddittorietà, la provocazione, il mettere in disaccordo pubblico e critica proponendo musica di indiscutibile qualità con un’attitudine al limite della caricatura e della presa per i fondelli sono caratteristiche da sempre distintive per i Deafheaven, che hanno saputo quasi costringere il pubblico a schierarsi con loro o contro di loro, riservando un costante menefreghismo a chi andava a far parte della seconda schiera.

Vedere George Clarke fare i saltelli e bere un sorso di Jack Daniel’s per caricarsi appena fuori dal palco durante il line check mi ha fatto quasi sorridere, come se, anche solo pochi secondi prima dell’inizio del concerto, sentisse in qualche modo il bisogno di provocare chi poteva vederlo apertamente, nella sua ostentazione da primadonna. O forse stavo cadendo nel trappolone dei Deafheaven? Sospendo tutto, guardo e ascolto.
Tolta la superficie – vera o falsa non importa – da provocatori, escluse le critiche e le dicerie, chi odia sta indietro, chi supporta si esalta davanti; il resto non conta quando arriva la musica.
E che musica.
Un concerto intenso, frontale, sostenuto senza nemmeno l’ombra di una sbavatura, che riesce a fomentare chi dà fiducia alla band o, magari, per una sera, decide di dismettere il broncio e stare al gioco. Clarke è ovunque, che piaccia o meno, tiene il palco in maniera spontanea e narcisistica, sta sulle transenne, si concede più volte al pubblico, dando il via al crowd surfing su “Dream House”, quasi rapito dall’estasi del momento.

Resta la certezza di aver visto una band validissima, in forma smagliante, capace di andare avanti perché, nonostante le critiche, è diventata ormai troppo grande per fallire.