IL SOGNO DEL MARINAIO + DAGGER MOTH, 15/10/2016
Bologna, Freakout.
Quali sogni può fare un marinaio? Dipende, credo, dal rancio, dalla rotta, dalla lunghezza del viaggio, dalla ciurma, dalle condizioni del mare. Il nome del progetto “italiano” di Mike Watt, semplicemente un monumento per chi segue le vicende della musica indipendente americana (e non solo), è proprio Il Sogno Del Marinaio; per chi scrive una scelta non molto felice, ma poco importa, stante il concerto che Bologna ha avuto la fortuna di vedere.
Il live, seconda tappa del “Canto Secondo Tour” (com’è noto, i marinai indulgono con l’alcool e poi agli inevitabili canti corali, o forse c’è un qualche riferimento all’epica e a Ulisse) spacca, come si diceva nei Novanta.
In apertura Dagger Moth, alias Sara Ardizzoni da Ferrara: chitarra, voce e basi elettroniche, non centra il bersaglio. Era la prima volta che l’ascoltavo e durante i pezzi, che seguivano tutti lo stesso canovaccio (voce suadente, un giro di chitarra senza infamia e senza lode, una batteria elettronica, qualche loop e via di stratificazione) potevo già prevedere, azzeccandola, la soluzione melodica o ritmica che sarebbe giunta di lì a poco. Non è un buon segno. Al crocevia tra PJ Harvey e chissà quante altre (ed altri), il live consegna agli audioarchivi una musicista senz’altro animata da grande entusiasmo, ma per la quale forse sarebbe auspicabile una revisione degli strumenti di bordo e/o della rotta intrapresa.
Nessun problema di navigazione invece con Il Sogno Del Marinaio, se non il rischio di un’eccessiva euforia per un vero e proprio viaggio: per circa un’ora il numeroso pubblico del Freakout (il concerto è sold out, con entrata up to you, complimenti ai ragazzi del locale) viene portato a fare un divertente giro di giostra tra mille trovate, scatti inaspettati, una gestione fantastica delle dinamiche e un senso del groove che non lascia scampo. Montagne russe, insomma, ma senza la nausea da alti e bassi improvvisi. È musica solare, la loro, che comunica gioia di vivere e il puro piacere di suonare, tra sbandate calypso, echi di musiche hawaiane, funk storto, urgenze hardcore, lo swing del rock più fresco e certi stacchi la cui nettezza lascia di stucco.
Calypso? Funk? Ma che si è fumato il recensore? Ahimé sono sobrio da anni, giuro, e sobri perché non strafanno mai, e decisamente in palla, sono anche i marinai sul palco, che ci preparano delle pietanze dal sapore sorprendente ma non stucchevole.
Alla fine di rock evoluto si tratta, intelligente e mai presuntuoso, intellettuale ma non intellettualoide, affascinante ma non fashion, fisico e mai tamarro, energico ma non inutilmente pestone. Pilia sugli scudi, Belfi visibilmente divertito (i marinai se la ridono e sanno come domare anche i marosi più alti…) e molto tribale, e Mike Watt? Che dire, il basso, diceva Sasha Frere-Jones degli Ui secoli fa, è un ottimo rilevatore di cazzate, ed il nostro non suona una nota una che sia di troppo, confermandosi semplicemente un maestro.
I sogni di questi marinai sono caleidoscopici e popolati da lingue diverse: nei loro viaggi devono essere passati da New Orleans (il feeling che arriva a volte è quello sfrenato e da baccanale di una marching band, eppure sul palco non si vedono tube, tromboni e grancasse), per le grandi praterie del prewar-folk (in certe finezze della chitarra), dalla Chicago nera (perché comunque il motore di tutto è sempre il ritmo) e chissà da dove altro ancora.
Tutto questo fertile vagabondare viene condensato in pezzi in technicolor della durata di pochi minuti, come da scuola Minutemen (mi ero ripromesso di non citarli, ma come si fa?), dotati di un’articolazione e di una complessità che a volte sfiora il prog ma resta sempre e comunque intimamente punk. Grazie a questo dosaggio perfetto e a un equilibrio che ha del prodigioso, le composizioni restano più vicine alla forma canzone che all’esercizio strumentale risultando complesse senza essere complicate, dirette senza essere banali, gagliardamente rock senza risultare piatte.
Spassoso poi il finale, con quello che si sospetta essere un omaggio ai Soprano (Stugots!, pronunciatelo all’inglese, dal nome della barca di Tony il boss, ripetono in coro i tre dopo una sarabanda blues di sincopi e silenzi). Al termine ci troviamo con un sorriso ebete e una bella leggerezza addosso, felici di aver partecipato a questa festa.