Sneers: for violent days, they always pass
Per chi non lo sapesse, gli Sneers sono Greta (voce, chitarra) e Leonardo (batteria), hanno pubblicato un primo disco (per la mitica Brigadisco) nel 2013 e oggi sono arrivati al quarto, il secondo su God Unknown Records, etichetta avant-rock del bassista dei Mugstar. Il terzo (Heaven Will Rescue Us, We’re The Scum, We’re In The Sun) è probabilmente quello che più li ha fatti conoscere e questo Tales For Violent Days non è solo il bis di qualcosa che ha funzionato: si era già visto il legame con gli Swans e quello coi Father Murphy, così non è stato troppo sorprendente sapere del duo agli OFF Studio di Torino con Freddie dei Father Murphy e Paul Beauchamp, se non il meglio in giro in Italia, poco ci manca. Il risultato, non inevitabile ma quasi, è un pugno sanguinante di filastrocche piene di lividi. A recitarle è una creatura fantasy su di una giostra, ad accompagnarla percussioni primordiali ed elettricità che in qualche modo generano melodie instabili. Non so che disegno venga fuori se uniamo questi puntini: Velvet Underground, Swans, primi Bad Seeds, primi Liars, Father Murphy. Credo però che da qualche parte lì in mezzo girino Greta e Leonardo. Ne ho parlato con loro via mail: hanno confezionato insieme le risposte che leggerete.
Vorrei sapere in che città vivete ora, dove andrete in tour quest’anno e quanto è importante per voi suonare dal vivo.
Al momento diciamo che la nostra base è Roma, anche se nessuno dei due proviene da quelle zone. Però siamo, o meglio eravamo, abituati a spostarci spesso, soprattutto per andare in tour. Dopo questi due anni di pandemia non vediamo quindi l’ora di ripartire, suonare dal vivo ci piace e appassiona moltissimo anche e soprattutto per il contatto diretto e la condivisione con il pubblico. Tra poco inizieremo con la prima parte di un tour europeo muovendoci tra Francia, Belgio e Germania, poi di nuovo a giugno sempre in continente, ma più verso Est e in fine a settembre saremo probabilmente in UK.
Sono fan acritico dell’ultima incarnazione degli Swans, specie sul palco. Ascolto molto l’ultimo disco di Kristof Hahn, Six Pieces. Roba che ti toglie dal mondo. Vorrei mi raccontaste che cosa suscitano gli ultimi Swans in voi e cosa vi ha trasmesso Hahn quando avete lavorato con lui nel 2018.
Amiamo gli Swans in toto, senza per forza preferire un’incarnazione della band piuttosto che un’altra. Certo come si sono reinseriti nel panorama musicale moderno è ammirevole e una fortuna per tutti gli appassionati. Riuscire a collaborare con Kristof Hahn è stato per noi un grosso traguardo, anche se lui di certo non ci ha fatto pesare il suo background. È una persona davvero squisita e semplice, un talento umano al servizio della musica. Vederlo suonare sui nostri pezzi è stato molto emozionante. Inoltre è una fonte di aneddoti musicali inesauribile, tutti vissuti sulla sua pelle. Ci ha anche detto che l’impeto del nostro disco gli ricordava White Light From The Mouth Of Infinity. Davvero un bel complimento.
A New Noise sosteniamo i Father Murphy da sempre. Raccontatemi com’è lavorare con Freddie. Ditemi se sentite qualcosa in comune coi Father Murphy, uno dei gruppi migliori che abbiamo avuto in Italia dal Duemila in poi.
Sicuramente, così come gli Swans, anche i Father Murphy ricoprono un ruolo importantissimo nella musica che amiamo, italiana e non. Hanno fatto tantissimo per la scena alternativa e sono stati un gruppo di riferimento con un percorso artistico invidiabile. È stato fondamentale per la nostra evoluzione avere Federico al nostro fianco. Noi tendiamo a sostenere piuttosto fermamente le nostre idee, a volte troppo. Lui è riuscito ad aprire il nostro pensiero aggiungendo la sua visione e le sue idee. Questo ha permettendo al disco di fare un passo in più. Siamo molto contenti del risultato.
Vi ha aiutato anche Paul Beauchamp, di cui parliamo spesso, l’ultimo disco è una bomba. È un uomo-chiave per certe musiche in Italia. Sono curioso di sapere come vi siete trovati con lui.
Sì, questo disco di Paul è davvero notevole. Ci siamo trovati subito molto bene. Paul è una persona appassionata che in studio ti mette a tuo agio e partecipa attivamente con un entusiasmo che avvolge chi registra con lui. E sa fare molto bene il suo lavoro. È un grande conoscitore e autore di musica, con lui non ti annoi. E poi ha un mini-frigo sempre pieno di birre.
Molti di noi sul sito ascoltano roba che ha un approccio “less is more”. Siete in due per necessità o per scelta? Che vantaggi vi dà questo assetto e come vi rende creativi con le sue limitazioni? Domanda da un miliardo di euro. Datemi un po’ di tempo per il bonifico, devo creare i fondi.
In realtà per nessuna delle due. Abbiamo iniziato in due semplicemente per caso, senza cercare il progetto specifico. Visto che la cosa funzionava abbiamo proseguito senza mai sentire il bisogno di aggiungere altri elementi.
Vivendo poi anche insieme abbiamo ora, dopo diversi anni, una simbiosi creativa costante basata su un vissuto comune che apparentemente non necessita di terzi. Anche se poi, come nel caso di Federico come produttore, un coinvolgimento esterno ci permette di espandere la nostra creatività e di migliorarla.
Discorso diverso per i live. Soprattutto con gli ultimi dischi non ci siamo posti limiti compositivi dati dall’essere in due. Di conseguenza molti dei nuovi brani necessitano di più elementi per essere eseguiti come si deve durante un concerto, e difatti già da un po’ saliamo sul palco in tre.
Ora attendiamo con pazienza il bonifico. Con quello potremmo assumere nuovi musicisti.
Vorrei capire come vi siete posti nei confronti di Heaven Will Rescue Us, We’re The Scum, We’re In The Sun nel momento in cui vi siete messi a fare il nuovo. Avevate ricevuto responsi molto positivi, avevate raggiunto un’identità molto forte.
Sicuramente l’accoglienza positiva di quel disco ci ha spinto a farne un altro quasi subito. Per il resto a livello musicale non abbiamo guardato indietro. Diciamo che quel disco non è tra le influenze di questo nuovo lavoro.
Il titolo del nuovo disco è bellissimo. Raccontateci com’è saltato fuori, per piacere. Alla fine, al di là di tutto, noi vogliamo sentire delle storie…
Grazie mille, felici che ti piaccia.
Ci piace il fatto che sia ironico, con quel for che enfatizza il bisogno di ascoltare i nostri racconti per sopravvivere alla violenza dei nostri giorni (come se davvero potessero aiutare, ah!). Diciamo che dietro questo titolo una storia da raccontare c’è davvero… L’idea originaria era chiamare il disco “Tales About Violent Days”, perché alla fine le nove canzoni altro non sono che tempeste interiori. Poi proprio prima di spostarci a Torino per registrare, Leonardo ha incontrato Peter Greenaway a una conferenza e parlando gli ha chiesto la sua opinione sul titolo. Greenaway ha chiesto “Ma perché about Violent Days? Dovreste chiamarlo Tales for Violent Days.
Ci è piaciuta l’idea di creare un senso immaginario di urgenza, il bisogno di soddisfare un bisogno forse? Chissà.
Se devo scegliere il mio pezzo preferito del nuovo, dico “For Violent Days”. C’è qualcosa di scanzonato anche se il testo è amaro. Voi riuscite ad averne uno o i figli si amano tutti allo stesso modo?
Sì in effetti “For Violent Days” è una corsa rocambolesca nell’oscurità: between us and the sun/ the darkest the darkest path. È un appello all’universo!
Anche noi abbiamo dei pezzi di cui siamo più soddisfatti ma in ogni nostro lavoro troviamo tutti i brani siano necessari e imprescindibili alla totalità del disco, anche nella loro singola debolezza. Quindi l’amore è distribuito equamente. Proprio come immaginiamo debba essere con i figli. Però, se c’è da sceglierne uno, forse è “As Old As the Gulf War”. La guerra del Golfo è scoppiata esattamente quando Greta è nata e il pezzo è una riflessione sul confronto fra l’età anagrafica di un individuo e l’età di un conflitto. Può una guerra essere esattamente tanto vecchia quanto noi? Avere la nostra identica età? Greta ha poi pensato all’esistenza di sua madre durante la guerra fredda, alla perdita e a quella sensazione unica e contrastante che ti avvolge solo quando ritorni nel posto in cui sei nato.
Il senso è che ognuno di noi è nato in concomitanza di un conflitto più grande, ma all’interno si combatte una guerra senza armi, e spesso si perde. La tromba di Federico all’inizio del pezzo risuona tenebrosa e malinconica, lo rende quasi un presagio.