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SLOW PULP, Moveys

Nell’annus horribilis 2020 l’unica ancora di salvezza, per chi scrive, è stata sicuramente la musica; molto ascoltata, poco suonata (purtroppo). Durante tutti quei 366 giorni ci sono stati dei momenti precisi che hanno fatto da scambiatori, permettendomi così di passare da un binario all’altro per portarmi verso nuovi lidi o indietro nel tempo ma con un piede nel presente. Probabilmente dei dischi che mi hanno fatto conoscere nuove vie vi parlerò più avanti, ma per questo mese ho scelto quello che mi ha fatto fare un salto nel passato, e non tanto per l’avventura amarcord vissuta ad ogni ascolto, ma in virtù del suo importante significato per chi l’ha scritto e composto.

Nell’ottobre del 2020 esce l’esordio degli Slow Pulp, Moveys, che traccia una linea ben definita all’interno del mio autunno e di coloro che hanno ascoltato i loro singoli durante To Tape. Sulla loro carta d’identità c’è scritto Chicago e nei segni particolari “shoegaze” e “slowcore”, anno di nascita 2017 e tanti problemi prima dell’uscita del loro primo lavoro sulla lunga distanza. Nel 2019 pubblicano un ep, subito dopo alla cantante e chitarrista, Emily Massey, viene diagnostica una malattia infettiva parecchio invalidante, così lei è costretta a fermarsi. Da quel momento il percorso degli Slow Pulp cambia totalmente, si attiva lo scambiatore, deviano su altri binari e intraprendono un viaggio diverso in cui raccontano il disagio vissuto, la forza trovata in una band che diventa famiglia, sa aspettare e sorreggere chi è in difficoltà. Se dovessimo trovare un pezzo rappresentativo dell’intero Moveys e di ciò che vuole dire, senza dubbio sarebbe “Idaho”, capace di arrivarti fin dentro al cuore con la sua lenta avanzata e la voce celestiale e sofferta di Emily.

Quest’album sembra quasi un collage di fotografie dell’ultimo anno, una carrellata di ricordi e momenti diversi che riflettono anche differenti atmosfere. Se il brano di chiusura ricorda il finale di un ipotetico nuovo disco dei Beastie Boys – a sottolineare anche la giovane età dei componenti e la spensieratezza che contraddistingue certi periodi della vita nonostante tutto – tutti gli altri sono la summa di ciò che i ragazzi hanno assorbito dalla città di Chicago e riformulato in una maniera totalmente fresca e per niente “retromane”. Tutto il loro mondo ha una sottile vena di malinconia, ma addolcita da una voce straordinaria e da un lavoro di produzione preciso e completo.
Meno di trenta minuti di durata per un esordio maturo e consapevole, schietto e semplice, che sa arrivare in profondità tirando fuori tutte le ansie che ci portiamo addosso come un sacco pesantissimo, per trasformarle in un brivido lungo tutta la schiena. “Sto perdendo tutto il tempo” canta Emily in “Idaho”, e io invece ripremo play ogni volta che il disco finisce, perché nessun tempo è perso quando ci si emoziona.