ŠIROM, 12/4/2018
Milano, Volume – Dischi e Libri.
I Can Be A Clay Snapper dei Širom è un disco che mi ha letteralmente rapito e che stranamente (?) è stato dormito da quasi tutti (noi siamo stati gli unici ad intervistarli), quindi dovevo per forza intercettare i tre dal vivo mentre affrontavano questo tour europeo, di passaggio anche dalle nostre parti per un pugno di date. E non è bastata un volta sola, perché la prima, al Clan Destino di Faenza, ha avuto le sue complicanze: troppo rumorosa la movida del sabato sera nel bar più bello della città per poter garantire il silenzio necessario per godere di queste sinfonie acustiche in punta di dita, e quindi grande meraviglia per l’impatto live di questi pezzi e per come vengano suonati, ma anche, detto fuori dai denti, grande incazzatura per come in certi posti e in certe situazioni manchi il rispetto. Favoloso chiamare un gruppo come Širom gratis in un bar, ma che senso ha farli al sabato, quando il locale è stracolmo di gente a cui del concerto non importa nulla?
Le cose sono andate decisamente meglio al Volume, il bel negozio di dischi e libri connesso alla Santeria a Milano. Uno spazio raccolto, l’audience a terra, nessuna amplificazione, e finalmente la meraviglia di prima può fiorire in tutta la sua bellezza: già il colpo d’occhio è uno spettacolo, tra balafon autocostruiti, tamburi antichi, violini della steppa, cordofoni di ogni tipo, strumenti impossibili (un banjo con una corda che ha un tom come cassa di risonanza) à la Harry Partch. Il senso profondo di tutta la musica dei Širom forse si annida nel quarto d’ora abbondante di “Trilogija”, dal loro primo disco del 2016: una toccante, semplicissima melodia di corde, un controcanto di banjo, un violino da brividi a giocare con le infinite possibilità del suono di una corda tirata, come fosse una voce umana, poi una pulsazione che sa di cavalli al galoppo, di cacce, di notti, di capanne, di viaggio, una rincorsa verso un passato remotissimo e familiare, un vero e proprio ritorno alle origini e poi un canto di corde ed archi che semplicemente apre il cuore. Di queste cose è fatta la musica di questi tre ragazzi, capaci di trovare un perfetto, miracoloso equilibrio tra ritualità ancestrale, movenze post-rock (che nulla hanno di retorico grazie alla felicissima scelta di essere nudi, nitidi e totalmente acustici), ipnosi minimaliste e uno spiccato senso melodico. Sembrano, le loro, composizioni che sono sempre state lì, da secoli, come parole in qualche maniera sacre, e che loro hanno semplicemente disseppellito e tolto all’oblio del tempo (Samo Kutin, indaffarato tra cordofoni, balafon e altri prodigi, mi spiegherà poi di nuovo che i pezzi nascono sempre da lunghe session di improvvisazione). Musiche antichissime, su cui, per qualche imprendibile magia, non si è posata nemmeno un’unghia di polvere; anzi, rilucono, limpide come non mai, e assomigliano proprio alla voce di un amico ritrovato: qualcuno di cui credevi di non sapere nulla ma che in realtà ti rendi conto di conoscere da sempre. Lo stesso stupore e il medesimo senso di salvezza che avvertii quando vidi per la prima volta dal vivo Iva Bittovà in una minuscola chiesa pastorale in Sardegna, venti anni fa, l’ho avvertito a Milano, in una stanza calda, mentre fuori il mondo diluviava tra macchine, facce lunghe, milanesità, distributori e tangenziali. Esistono ancora possibilità di bellezza intatta, e i Širom (Itzok Koren, Ana Kravanja e Samo Kutin, nominiamoli tutti e tre gli autori di questo laico miracolo) sono un gruppo letteralmente straordinario su disco, come dal vivo. Io intanto continuo a mandare a memoria i primi due album, che anche dopo decine di ascolti aprono mondi, e sono già in attesa, fiduciosissima, del terzo.